Nato ad Alessandria nel 1980, Fabio Molinari risiede attualmente a Cantalupo, uno di quei sobborghi della città, come lui stesso ama dire, “che ci si ricorda solo quando ci sono i centauri”. Dopo la Maturità Classica al Plana di Alessandria, si è laureato in Filosofia all’Alma Mater di Bologna. Non contento, si è ulteriormente specializzato in Storia dell’alimentazione prima a Bologna, poi a Tours e a Barcellona. Lavora da quasi un decennio per Papillon / Golosaria, la strana invenzione di Paolo Massobrio che, oltre a sfornare una serie di importanti iniziative tra editoria e web, è diventata una della più importanti manifestazioni legate al cibo in Italia. Giornalista professionista, Fabio scrive ogni giorno di cibo. O meglio, di tutto quello che gli sta intorno: artigianato, agricoltura e un paio di altre cose che – dicono – valgano qualche punto del Pil nazionale. Buona lettura!
1) Fabio, da dove nasce la tua passione per l’enogastronomia?
Il piatto simbolo del Piemonte ha a che fare con il pesce. Sotto sale. E con l’olio. Eppure qui non c’è il mare e pochi ulivi. Però c’è una storia dietro, fatta di contrabbandieri, commercianti, dogane da evitare per far passare la merce più preziosa: il sale. Insomma ci sono una miriade di storie che con quel piatto (la bagna cauda) a prima vista hanno poco a che fare. Eppure il suo fascino, al di là della questione di gusto, è proprio in quelle storie. Questo mi piace dell’enogastronomia. Raccontare di storia, economia, di lavoro, partendo dal prodotto a prima vista più semplice. Cercando sempre di evitare l’edonismo (o l’onanismo gastronomico, quando si esagera).
2) Quando si pensa all’esperto del buon mangiare e del buon bere, comunemente ci si immagina il bon vivant, ricco di famiglia, tragicamente sovrappeso e terribilmente snob. È uno stereotipo ormai obsoleto, o c’è del vero?
C’è del vero. Non sul peso. Ma sullo snobismo o sulla capacità di spesa sicuramente. Certo è che alcuni prodotti vanno pagati cari. Perché c’è un lavoro dietro, mesi di attesa, selezione. Insomma, un formaggio o un vino che invecchia qualche anno non possono costare pochi euro. Il lavoro degli artigiani e degli agricoltori va remunerato giustamente. Dall’altra parte però non mancano le esagerazioni. Ci sono piatti che occupano 3 righe di menu, prodotti talmente ricercati da essere quasi inaccessibili: non sarà un po’ troppo?
3) Quanto si parla di cibo oggi?
Troppo. Stiamo diventando un popolo di obesi, almeno a parole. Non c’è orario in cui, accendendo la tv, non ci sia qualcuno che spadella. Alcuni sostengono che il cibo sia un elemento rassicurante e per questo piace così tanto in un’epoca di crisi. Per altri (ma questi sono i pessimisti) è lo specchio di una civiltà al termine della decadenza, che ammazza il tempo ai fornelli. Il problema vero è la volgarizzazione del cibo, il piatto gettato a terra alla faccia del lavoro che c’è dietro, la rincorsa a diventare lo chef star del momento. Per uno che diventa celebre ce n’è qualche decina che lavora nelle cucine di alberghi e ristoranti non famosi in tutta Italia. Eppure sono questi che fanno funzionare l’economia, che spesso sostengono il lavoro di agricoltori e allevatori che sopravvivono nonostante tutto in zone difficili. E che lavorano tutti i weekend (feste comprese) diverse ore al giorno. Dovrebbero metterlo nelle indicazioni delle scuole alberghiere, quando ci si iscrive: il cuoco è un mestiere duro.
4) Perché, secondo te, nel nostro territorio non siamo in grado di valorizzare le ricchezze enogastronomiche, culturali e artistiche che possediamo? Altre regioni, e altri Paesi, riescono a valorizzare anche i sassi…
Se i sassi sono quelli di Matera… il problema è che il nostro territorio è difficile da comunicare nel suo insieme. Qui non c’è la torre di Pisa o il castello di Federico II. La provincia di Alessandria è fatta di tante piccole storie, che necessitano di buoni narratori. E una buona struttura di accoglienza. E un progetto basato sul turismo alternativo, quello che usa le piste ciclabili – ad esempio – o che attraversa a piedi le colline. E chi viene per questo deve trovare castelli e pievi aperti, indicazioni funzionali, percorsi, connessioni. Noi abbiamo tutto questo? Non siamo la Toscana (anche se è piacevole pensare di esserlo) e per questo dobbiamo offrire molto di più, colpire la nicchia, incontrando il turista quando è ancora a casa sua, mentre segue le sue passioni. E’ un lavoro lungo, decennale, ma qualcuno – anche in Italia – c’è riuscito.
5) Ultima domanda: che cosa ti piace di Alessandria, e che cosa proprio non sopporti?
Alessandria è una città difficile da vivere: non ci sono le piazze intorno a cui sedersi (a meno che non siano parcheggi), le vie piene di tavolini, i parchi. Al contrario mi piace stupirmi, scoprire che anche qui ci sono belle iniziative, persone che fanno nell’ombra lavori eccezionali. Insomma, Alessandria e gli alessandrini sono ancora capaci di stupire. Nonostante il dissesto, le buche e la nebbia… ma a quest’ultima, alla fine, sono affezionato!