Sotto la mitica Curva Nord dello stadio Moccagatta lui è davvero di casa, e non c’è tifoso dei Grigi che non lo saluti con simpatia, e riconoscenza. Perché Mario Coscarella, da tanti anni ormai, racconta in ‘presa diretta’, con le sue fotografie, i successi e le sofferenze non solo dell’Alessandria Calcio, ma anche e soprattutto del suo popolo, delle persone che la domenica pomeriggio sulle gradinate della Nord, in particolare, ci portano passione ed entusiasmo. “Eh sì – sorride Mario accendendosi l’immancabile sigaretta –, i Grigi sono, insieme alla fotografia naturalmente, la mia grande passione, pienamente vissuta e realizzata. Ne avevo un’altra da ragazzo: suonare la chitarra. Ma lì non ho mai fatto progressi, sarà per un’altra vita”. Proviamo allora a farci raccontare, da Mario Coscarella, come le sue passioni sono cresciute nei decenni, e in particolare cosa significava fare il fotoreporter trent’anni fa, e come è cambiato il mestiere, qui a casa nostra.
Mario, fotografi si nasce o si diventa? Insomma, come hai cominciato?
La fotografia per me da ragazzo fu una passione tenuta lì, soffocata: perché costava, diciamoci la verità. I tempi erano un po’ diversi da oggi, e i costi delle strumentazioni anche: non era per tutti insomma. Poi un giorno, sul finire degli anni Ottanta, non ricordo se per Natale o per il mio compleanno, mia moglie mi fece un regalo bellissimo: la mia prima macchina fotografica appunto, acquistata da FotoFrancia, in via S. Lorenzo ad Alessandria. Era una Rollei, ancora mi ricordo: aveva un solo obiettivo, ma era già uno strumento di buon livello. C’era solo un piccolo dettaglio: dovevo imparare ad usarla…
Autodidatta?
Completamente, ma con l’aiuto fondamentale di un caro amico che ora non c’è più, e si chiamava Ezio Zorzoli. Lui conosceva già il mestiere, e soprattutto aveva una piccola camera oscura, per cui mi insegnò non solo le tecniche e i trucchi per scattare buone foto, ma anche la fase di lavorazione dei negativi, e dello sviluppo del bianco e nero. Mi regalò anche il Manuale del fotografo, che lessi con attenzione e più volte: ma naturalmente un conto è la teoria, altro riuscire a fare buone foto: lì, oltre alla passione, ci vuole tanta pratica, e inevitabilmente si deve passare attraverso una serie di errori.
Quindi tu diventasti fotografo, come attività principale e mestiere, solo in età adulta?
Assolutamente: arrivai ad Alessandria, dalla mia Calabria, nel 1966. Avevo 18 anni, qui ci abitava già un mio zio, e mi spostai alla ricerca di lavoro. Certo, erano tempi un po’ diversi: arrivai il sabato, il lunedì già mi presentai al primo colloquio, e mi presero. E per 25 anni feci il metalmeccanico, in un’azienda alessandrina che apparteneva al Gruppo Montedison. E naturalmente nel frattempo mi formai una famiglia, e oggi ho una figlia di 37 anni e un figlio di 33: che è un informatico, e mi ha aiutato moltissimo nel passaggio al digitale. Comunque sì: fu all’inizio degli anni Novanta, durante un lungo periodo di cassa integrazione, che meditai di cambiare mestiere. E lo feci, prendendomi i rischi del caso.
E scegliendo il mondo dei giornali, e di diventare un fotoreporter: perché?
Perché il giornalismo mi piaceva e mi piace ancora, anche se nel frattempo è molto cambiato. E poi anche per una componente di casualità. Ricordo che mi presentai da Paolo Zoccola, direttore del Piccolo, che all’epoca aveva ancora la sede in via Ferraris, vicino alla piscina comunale. E gli portai una serie di foto del Carnevale alessandrino, che avevo scattato per passione, dicendogli: se volete, potete pubblicarle. Lo fecero, e da allora in poi cominciai a proporre alcuni servizi. Finchè appunto non divenni fotografo del Piccolo (per diversi anni), e contemporaneamente anche di altri giornali ‘exralessandrini’, naturalmente per eventi e notizie di casa nostra: ho lavotato per il Lavoro di Genova, per Cronaca Vera, e altri ancora.
Qual è la parte più difficile del lavoro di fotografo di cronaca?
Te ne dico due di passaggi difficili: uno è certamente raccontare gli incidenti mortali, spesso andando alla ricerca delle foto delle persone scomparse. Specie quando si tratta di giovani, ci vuole una sensibilità e una delicatezza che non tutti hanno. Poi naturalmente c’è l’aspetto della tempistica: e qui davvero sia benedetta l’invenzione del telefono cellulare, e della posta elettronica. Chi non ha fatto questo mestiere prima che questi due strumenti diventassero di uso comune neanche si immagina che cosa significasse lavorare in tempi super-ristretti, sviluppare le foto, recapitarle in tempo utile al giornale, magari ricorrendo al ‘fuori sacco’ ferroviario per testate fuori piazza: ossia affidando il tutto alla polfer, che consegnava il pacco a qualcuno che andava a ritirarlo alla stazione di arrivo. Una maratona, che oggi si esaurisce con pochi clic dal proprio computer….
Raccontaci dunque, Mario, il tuo passaggio al digitale, e ai giornali online. Quando e come avvenne?
Chiuso il rapporto con Il Piccolo, collaborai per qualche tempo con il settimanale cartaceo Il Corriere di Alessandria, che non ebbe fortuna ma secondo me era un bel giornale. E poi decisi di provare a disintossicarmi: perché la fotografia stava diventando davvero una malattia, non pensavo ad altro….Però dopo un po’ ci sono ricascato, complice il web naturalmente, ma anche il digitale, che come tecnica mi appassionò, e in cui mi sono impratichito grazie all’aiuto di mio figlio. Comunque, negli anni Duemila sono tornato in pista con i giornali on line, e in particolare con Giornal, quando era diretto da Paolo Allegrina. E anche lì mi sono parecchio divertito….
E poi hai lanciato anche un tuo magazine on line fotografico, interamente dedicato ai Grigi, e apprezzatissimo da tutti i tifosi e gli sportivi alessandrini. L’Alessandria calcio è un’altra delle tue grandi passioni?
Sicuramente sì: ho cominciato a seguire i Grigi da ragazzo, appena arrivato ad Alessandria. E quella maglia, quello stadio mi sono entrati nel cuore. Poi, negli anni in cui collaboravo con il Piccolo, ho cominciato a seguire professionalmente prima il calcio provinciale (Valenzana, Derthona e le altre squadre della provincia), e ad un certo punto mi hanno assegnato il mitico Moccagatta!
Dove oggi sei un punto di riferimento per la Curva Nord….
(sorride, ndr) Diciamo che sono sempre stato l’unico ad avere il coraggio di piazzarmi a fotografare direttamente sotto la curva, a pochi metri dagli ultras e dalla porta avversaria. Perché a me piace fotografare da un lato i goal dei Grigi in movimento, per cui faccio una serie rapidissima di scatti in sequenza ad ogni azione offensiva dell’Alessandria, e poi a posteriori al pc scelgo le foto migliori, e le ‘pulisco’ e ottimizzo. Dall’altro lato mi piace però anche raccontare le emozioni che si percepiscono allo stadio, e sugli spalti: e dove meglio che sotto la Nord si può raccontare davvero la partita dal punto di vista del cuore?
Chissà quanti aneddoti hai accumulato, in vent’anni di fotocronache….
Tantissime, perché gli ultras sono davvero il dodicesimo giocatore grigio in campo, e lo sanno bene anche gli avversari. E con molti di loro si è creato un rapporto di amicizia. Ricordo che una volta, durante una partita un po’ deludente e noiosa, mi gridarono: ‘dai Mario, facci almeno un po’ di foto, che ci tiriamo su”….e così faccio sempre nei miei reportage, perché le immagini della Nord raccontano il match in maniera altrettanto importante rispetto al campo. E poi, naturalmente, da quando la domenica sera pubblico la sintesi fotografica degli incontri casalinghi dei Grigi, rilanciandoli anche su facebook, ci sono sia tifosi che calciatori che non vanno a letto se prima non vedono il reportage, e se ritardo un po’ cominciano con sms e e-mail, dicendomi: “forza Mario, arrivano le foto? Le stiamo aspettando per rilanciarle”!
Ettore Grassano