“Oggi un originale è chi ha rubato per primo”.
Karl Kraus, “Detti e contraddetti”.
Capita, ascoltando Pagina 3, il “programma radiofonico di approfondimento delle pagine culturali e dello spettacolo” in onda tutte le mattine dalle 9 alle 9,30, di trovare qualche spunto per una riflessione. Nell’edizione di martedì 3 giugno, Edoardo Camurri, che conduce la trasmissione in questo mese, ha citato un interessante articolo di Andrea Minuz, un letterato che si occupa di cinema, nel quale l’autore ripercorre la storia recente del cinema italiano in chiave di quel “sortilegio – il «degrado morale» – che trasforma una storia qualsiasi in un «film riconosciuto di interesse culturale»” [A. Minuz, “Breve storia del «Degrado Morale» e della sua trasformazione in genere cinematografico italiano]. In questo saggio, passando in rassegna i personaggi, gli attori, i registi, i critici cinematografici, nonché l’elenco delle dichiarazioni di personaggi del mondo della politica, da Cesare Romiti a Lele Mora, l’autore ironizza sulla categoria del «degrado morale». Una categoria, egli scrive, “che non è un genere, ma funziona come un’etichetta classificatoria”. Di più, essendo nota anche “come il-degrado-morale-di-questi-venti-anni”, taluni ne fanno risalire le origini al 1994.
Trattasi invero, sostiene Minuz, di una categoria che ha origini lontane, dal momento che già nel 1965 la Conferenza Episcopale italiana segnalava alla “commissione per la valutazione e classificazione dei film sotto il profilo morale e a fini pastorali … il pericoloso degrado morale raccontato dalla più impegnata produzione cinematografica italiana recente.” Il tutto avvalorato dal fatto che “come ci spiega la Santa nella terrazza di Sorrentino – nel film «La Grande Bellezza» – le radici sono importanti”.
Fin qui l’ironia di Minuz. Tuttavia, se attratti dalla morbosa curiosità per i fatti di cronaca passiamo dalla «settima arte» alla realtà, sembra quasi che negli ultimi tempi, a partire dalla decapitazione da parte della magistratura dei vertici di importanti banche (dall’MPS alla genovesissima Carige), fino ai più recenti scandali relativi alle tangenti legate agli appalti delle grandi opere (dall’Expo 2015 al Mose di Venezia), che la realtà, come spesso accade, abbia abbondantemente superato la fantasia (cinematografica). Sia chiaro: fino a quando non verranno celebrati i processi, non è lecito considerare ladroni o malfattori quanti versano in stato di detenzione, né tanto meno coloro che sono stati raggiunti da “avvisi di garanzia”. A maggior ragione se, come è accaduto sovente nel passato, gli implicati nelle malversazioni sono poi stati ritenuti “non colpevoli” dalla magistratura giudicante. Un fatto però resta certo: che tutti questi episodi minano la fiducia degli italiani sia nella classe politica, che nel mondo degli affari.
Mi è capitato proprio nei giorni scorsi di porgere ad un amico, compagno di studi dai tempi dell’università, che ha scelto di operare nel mondo dell’industria, la seguente domanda: “è possibile svolgere un’attività economica senza necessariamente ricorrere alla pratica della «dazione ambientale»?” Dopo averci pensato un po’, il mio amico mi risponde: “bella domanda. Intanto distinguerei tra attività pubblica e privata. In quest’ultima, dove il denaro che circola è di proprietà, capita spesso che, anche solo per ingraziarci colui con il quale si cerca di fare affari, ci si scambino piccoli regali, come un cartone di vini, talvolta un orologio, spesso un invito a cena. Nulla di illegale, semplici gesti di cortesia. Ma quando le cifre coinvolte negli affari aumentano, si moltiplica il rischio di incorrere in pratiche corruttive” Nel pubblico, invece, … siccome il denaro è di nessuno …”. “Come, lo interrompo io, il denaro pubblico non è di nessuno è di tutti!”. “Già, replica il mio amico, così è nella cultura protestante, nel mondo anglosassone, ma da noi … noi siamo cattolici, si commette peccato e poi ci si confessa”. Se, infine, si presta attenzione al fatto che tra coloro che sono implicati nelle «dazioni ambientali» sono coinvolti, oltre a personalità politiche e imprenditoriali (certe cose si fanno sempre in due, se c’è chi riceve, c’è necessariamente qualcuno che dà), anche alti gradi della finanza e persino magistrati, ha forse ragione Minuz quando, abbandonando per un istante l’ironia, scrive che “Il degrado morale siamo noi, nessuno si senta escluso”.
Se la categoria del «degrado morale» induce all’ironia, quella di natura antropologica del «degrado culturale», ricorrente sulla stampa (e nelle analisi sociologiche), merita qualche attenzione, anche se ad utilizzarla, nel commentare l’esito delle elezioni amministrative in quel di Livorno, è un regista: “E’ stata la risposta al degrado culturale”, è il titolo del commento di Paolo Virzì su La Stampa del 10 giugno. Anche in questo caso saremmo tentati di farne risalire le origini al 1994 (di certo, nell’ultimo ventennio non ci è stato risparmiato nulla), ma è mia ferma convinzione che le origini del «degrado culturale» in atto nella società italiana (il deterioramento delle condizioni ambientali, politiche e sociali è sotto gli occhi di tutti) debba essere fatto risalire almeno ad un paio di generazioni. Da quando, cioè, la famiglia, la scuola e l’associazionismo giovanile (di stampo cattolico, ma non solo) hanno abdicato nella trasmissione intergenerazionale dei valori culturali in favore della televisione commerciale. Ma qui entriamo in un campo, già ampiamente sminuzzato dalla letteratura (basti pensare, uno tra i tanti, agli scritti di Pier Paolo Pasolini). Ma questa volta, senza ironia.
*Dedicato all’amico Lino Poggio, scomparso qualche settimana fa in quel di La Salle, all’età di novant’anni. Genovese, portuale, da sempre comunista, critico lettore dei miei scritti divulgativi, sagace e acuto conversatore, di Lui porterò il ricordo delle innumerevoli discussioni, sempre arricchite dalla sua sapiente esperienza di vita, sui fatti di economia e di politica riportati sui suoi quotidiani preferiti: il Manifesto e più recentemente l’Unità.