Quello che so (e ricordo) di Demetrio Stratos…

Stratos 1di Gigi Poggio

“Che bravi che erano gli Area
International Popular Group
Demetrio cantava di tutto
accompagnato da musicisti che suonavano di brutto
esploravano musiche nuove
e la gente ascoltava
un pubblico costituito
da giovani comunisti
capelloni e drogati”

“Come gli Area”, Elio e le Storie Tese, 2013

 

Scrivere di Demetrio Stratos, proprio nell’anniversario dei 35 anni della sua scomparsa, è un fatto che mi evoca, contemporaneamente, imbarazzo e malinconia. Il primo stato d’animo me lo provoca la sua grandezza di artista, innovativo e controcorrente, assoluto protagonista di una stagione di musica e cultura straordinarie eppure rigoroso, attento, infaticabile. La malinconia, invece, mi viene pensando ai tanti “Chi è?” che prorompono stupiti nelle molte, troppe domande di chi, purtroppo, di Stratos non sa quasi niente.

Era impossibile non incontrare  Stratos nei ruggenti anni del pop, del progressive eArea della contestazione, gli anni in cui ideologia, musica, comportamenti erano tutti legati, indissolubilmente. Al di là delle analisi sociologiche (che vi risparmio) e dei ricordi personali (solo qualcuno, lo giuro!) la musica degli anni 70 era un impasto indistinto di tutti questi elementi; spazio per le sfumature ce n’era pochino e più di un artista sceglieva di stare a sinistra perchè il mercato, allora, tirava in quella direzione. A distanza di anni dobbiamo ammettere che noi, ragazzotti della sinistra, altro non eravamo che dei consumatori, forse inconsapevoli ma soprattutto consumatori; certo, c’era grande identificazione nei libri che leggevamo, nei film e nella musica che seguivamo ma poi tutta questa sensibilità e questo spirito non riuscirono mai a produrre un vero radicale cambiamento.

Nel panorama musicale, in ogni caso, i gruppi che andavano per la maggiore (Banco e PFM) stavano sopra le parti per il consenso indistinto che riscuotevano, salvo poi scrutare l’orizzonte oltre cortina e sposare, il prima possibile e in maniera acritica e provinciale, la causa dell’album “in inglese”, alla ricerca di un mercato straniero peraltro assolutamente inaccessibile. Accanto a loro, un universo di realtà che sondavano spazi un po’meno visibili e gratificanti. Musicisti sovente straordinari che, per scelte personali e di mercato, in cui c’entravano etica e convinzioni politiche, viaggiavano in direzioni tutte loro. Ricordo gli Stormy Six, il Perigeo, il Canzoniere del Lazio nelle sue differenti formazioni e gli Area. Organico di gente differente ed eterogenea, con esperienze assolutamente lontane da quello che si poteva ritenere il canonico gruppo di pop italiano, gli Area si muovevano in circuiti musicali alternativi, prodotti da un’etichetta – la Cramps – che è un pezzo di storia della musica italiana di quel tempo.

Geniali, creativi, tecnicamente bravissimi, gli Area non erano mai stati alla ricerca né di consenso né di successo. I loro concerti giravano soprattutto i meeting dell’extrasinistra, di cui si ritenevano militanti neanche troppo devoti, comunque liberi di agire e decidere.

Stratos FarinelliLi ricordo una sera di giugno del 76. Li intervistai per conto di Radio Veronica di Alessandria, sul Transit che li aveva portati al Festival dell’Unità di Novi Ligure. La sera prima, in un clima sfatto, pieno di proteste velleitarie e sconclusionate, avevano intrattenuto una miriade di fricchettoni al Parco Lambro, facendo correre i cavi del loro impianto voci proprio tra i partecipanti al leggendario Festival del Proletariato Giovanile, dicendo che le scariche generate dal contatto tra fili e pelle stava generando in quel momento un vero “processo creativo”. Stratos, che era il leader del gruppo e parlava nel religioso silenzio dei suoi, usò termini non riferibili sull’esperienza della sera precedente, ultimo momento di un raduno che andava avanti da giorni tra slogans e comportamenti che riflettevano tutta la desolazione e lo smarrimento di quei giovani, tra sporcizia, assalti al palco e ai musicisti ed espropri alla mensa del festivaI. Non posso non tornare con la mente ai  suoi commenti, carichi di comprensibile insofferenza nei confronti dei partecipanti a quell’improvvisata e insolita jam session e non pensare a quanto quegli anni restino così enigmatici da comprendere eppure ricchi di fermento ed energie.

Ma gli Area erano avanti, non fiutavano le mode, i loro tempi dispari e i ghirigoriArea 2 delle loro tastiere, insieme ai vocalizzi di Stratos miravano obiettivi forse visionari e irraggiungibili che però immaginavano una musica frutto di preparazione e ricerca, in un futuribile contesto politico in cui il talento e la serietà fossero premiati. Non solo “gioia e rivoluzione” ma anche qualità, creatività, nuovi linguaggi. La crisi di quegli anni, la fine delle illusioni politiche e culturali e il confluire di molte di quelle energie nel disimpegno o, peggio, nella pratica della lotta armata cambiarono radicalmente il clima in cui agivano anche esperienze come quelle degli Area. E lì, la sperimentazione che Stratos aveva avviato all’interno del gruppo divenne pratica quotidiana.

Stratos 2Lasciato il gruppo, iniziò la ricerca a tempo pieno sulla voce e sulle tecniche di emissione dei suoni orali. Lo rincontrai in un’auletta del Conservatorio Verdi di Milano, nella primavera del 79. Per tutti era il “maestro” Stratos, come si definisce correttamente un insegnante di Conservatorio. Frequentavo un corso di Etnomusicologia con l’ex sassofonista del Canzoniere del Lazio, Luigi Cinque. Parlando di launeddas ( strumento composto da tre canne di bambù, di misura differente, timbro inconfondibile della musica sarda e suonato con la tecnica della respirazione continua, usando le guance come la sacca della zampogna), Stratos intervenne per approfondire il tema della respirazione e fare comparazioni e confronti con la sua tecnica di canto. Lo rividi ancora una volta, il sabato dopo, stessa aula. Parlava piano, chiaro, con gli occhi bassi che si alzavano all’improvviso, per scrutare nel tuo sguardo se stavi seguendo il filo logico del suo discorso. Pantaloni di daino, un maglione chiaro di lana spessa e uno smanicato di pelle coi bordi di pelo. Era lui, come sul palco, imponente e carismatico.
Il sabato dopo, il “maestro” era assente come mi comunicò sbrigativo un bidello nell’atrio del Conservatorio. Sembrava un semplice malanno influenzale ma nei giorni successivo si seppe che c’era qualcosa di più complesso. Luigi Cinque chiuse il corso di Etnomusicologia senza dar conto della salute del suo collega e che Stratos stesse proprio male lo si apprese dai giornali che parlarono, senza mezzi termini, di “aplasia midollare”, una malattia incurabile, se non con un trapianto.

Stratos fu portato negli States ma le cure erano costose e lui non era un musicistaStratos concerto Arena ricco. La Cramps lanciò l’idea di un grande concerto all’Arena Civica di Milano per raccogliere fondi da donare alla sua famiglia per la terapia necessaria. Titolo della serata “Il concerto” come comunicava il manifesto: l’immagine era un grande cuore di carta appallottolata e di fianco i nomi dei musicisti che aderivano a quell’iniziativa. Ci radunammo in 60.000, la sera del 14 giugno nel vecchio stadio di Milano, qualche ora dopo aver appreso che Stratos se ne era andato. Sera calda, luminosissima, l’Arena presa d’assedio da un moltitudine di giovani, molti dei qualì lì per la musica, e basta. Una serata difficile da subito; all’ingresso, in migliaia pigiati nelle anguste aperture del vecchio stadio milanese con qualche scena di panico e tanti saluti a ogni minima misura di sicurezza.

Sul palco, in un’atmosfera surreale resa ancora più assurda dai toni dei due presentatori, Massimo Villa e Fabio Santini, salirono tutti e di più e il fatto sembrò tanto più stridente se si pensa a quanti di loro le scelte rigorose di Stratos non le avevano mai condivise o, forse, addirittura derise. Il concerto scivolò stancamente, in mezzo a gente francamente un po’ distratta, come un rituale che si andava consumando ma forse qualcosa di più profondo e definitivo. Ultimi suonarono gli Area, prima di loro Carnascialia, con un brano di Mauro Pagani “Europa Minor”, progetti, questi, a cui Stratos aveva partecipato come autore e interprete qualche mese prima. E poi alla fine salirono gli Area, con Paolo Tofani che chi si era riunito al gruppo, dopo la acida separazione dell’anno prima. Mai come quella sera “L’internazionale” mi sembrò una musica tetra, senza speranza, evocatrice di una fine. Gli Area la suonarono come al solito ma era il contesto dell’Arena che dava l’idea di una rinuncia, della conclusione di un’epoca. E così fu.

Stratos 4Qualcuno il giorno dopo parlò, a proposito della serata, del “funerale di una generazione”. Non so e non sono in grado di stabilirlo; certo l’aria che si respirava era quella di un momento di grande scoramento; la formula dei megaraduni, in cui coniugare la politica e la musica era ormai logora, non esprimeva più slanci e pathos. C’era stanchezza, disillusione, vuoto di creatività.
Qualche tempo fa, attesissimo, è uscito un bel documentario su Stratos e il suo percorso di artista. L’ho trovato un ricordo dolce e curato. Dolce per la malinconia che mi è sorta vedendo certi suoi coetanei e compagni di viaggio, oggi in là con gli anni, eppure ancora vivaci negli sguardi a raccontare le avventure, le pulsioni e gli slanci di quell’epoca, forse irripetibile. Curato perchè da conto di un percorso fuori dal tempo, innovativo, determinato, allora forse poco compreso.

Ripensare oggi a lui non è certo tentare una banale opera di riscoperta perchè Stratos non è stato solo il mitico cantante degli Area, non è stato solo la voce de “La mela di Odessa”. Il suo talento e la sua ostinazione, la sua ricerca e il suo metodo sono storia, cultura, forse scienza  e questa consapevolezza è il modo migliore per ricordarlo anche oggi. Con emozione e rispetto.