Se la matematica non è un’opinione, dietro l’angolo dovrebbe esserci una ‘morìa’ di ipermercati e centri commerciali, anche a casa nostra.
L’analisi dell’Ires Piemonte, basata appunto sull’applicazione al territorio regionale (e provinciale) di un algoritmo matematico, parla chiaro: in provincia di Alessandria sono ad oggi presenti 16 mega strutture, ma il livello attuale dei consumi è tale da consentire di soddisfarli con soli 6 centri commerciali.
Qui, però, si ferma la riflessione dei numeri, e comincia la realtà. Perché, è evidente, un processo del genere funzionerebbe se la proprietà di tali strutture fosse unica, ossia se vivessimo in un regime di monopolio, pubblico o privato.
Nei fatti, è assai più probabile che continui invece la fase, già in atto da tempo, di reciproca ‘cannibalizzazione’, ossia la corsa alla sopravvivenza delle diverse catene, fatta di offerte, ribassi, 3 o 4 x2 ecc ecc. E questo, per noi consumatori finali, potrebbe anche essere un vantaggio. E’ il mercato, bellezza: vado dove costa meno, a parità di qualità, o super giù.
Peccato che ci sia poi l’altro aspetto, quello legato al costo del lavoro: e lì è lecito supporre che la stessa logica al minimo costo generi storture e disagi, fino al vecchio buon caro sfruttamento dei lavoratori che, comunque la si pensi, non passa mai di moda. Magari in forma di ‘spremitura’, e poi di rottamazione a 45 anni. Anche questo è il mercato, e far finta che non sia così non migliora gran che le cose.
Ma, se fino all’altro ieri tutti quanti più o meno eravamo concordi nel ritenere che la grande distribuzione ha standardizzato i consumi, e soprattutto ‘annientato’ il caro buon vecchio commercio tradizionale, è il caso ora di metterci le mani nei capelli se davvero (al momento non ci pare sia successo) si arrivasse ad un drastico ridimensionamento del settore?
E, soprattutto: se ciò dovesse accadere, quali sarebbero le conseguenze del fenomeno?
In prima battuta, non c’è dubbio, due sarebbero gli effetti più eclatanti, anzi forse tre:
1) nuova ondata di disoccupazione nel settore
2) crollo degli affitti, e degli introiti comunali, legati alle chiusure dei punti vendita.
3) Che ne faremmo di quelle cattedrali nel deserto?
Ma, al di là di ciò, la domanda vera è: la chiusura di una parte significativa degli ipermercati porterebbe ad un rilancio di nuove forme di commercio, più vicine a quelle tradizionali di un tempo, o comunque capaci di rilanciare il centro storico delle nostre città di provincia, oggi largamente in abbandono?
Il dibattito è aperto. A naso, due elementi ci sembrano certi:
1) indietro non si torna mai, almeno in maniera strutturata. Scordiamoci quindi che la chiusura dell’ipermercato possa portare tout court ad un ritorno alle botteghe di trent’anni fa.
2) il commercio, come ci diceva qualche tempo fa un addetto ai lavori che ne sa certamente più di noi, esiste da quando l’uomo ha cominciato a strutturarsi in micro comunità, scambiandosi le merci. Quindi niente paura: sopravviverà anche alla stagione degli ipermercati (in verità per nulla esaltante: ma ci siamo ormai abituati a quei ‘pascoli’ artificiali e climatizzati, e magari finiremo per rimpiangere con nostalgia pure quelli), e saprà trovare nuove strade, nuove formule, un’offerta adatta ai tempi che cambiano.
Prima, però, è ancora da vedere se gli ipermercati chiuderanno davvero, come dice la matematica. O se invece il ‘cambio di pelle’ non comincerà proprio lì dentro. Come diceva il mitico Trapattoni, “mai dire gatto se non l’hai nel sacco”.