“Roberto era per me un amico vero, come un fratello. Il regalo più inatteso lasciatomi dalla disastrosa alluvione del 6 novembre 1994”. Il professor Bruno Soro esordisce così, lasciandosi ‘sprofondare’ nella poltrona del suo studio di casa, e inseguendo il filo dei ricordi, senza nascondere la commozione. Siamo in quel quartiere, gli Orti di Alessandria, che è stato ‘il fondale’ (prima tragico e poi ‘di ricostruzione’), in cui la sua amicizia con Roberto Nani è nata, e si è fortificata sempre più nel corso degli ultimi vent’anni. Fino al tragico epilogo: la sensazione che “ci fosse qualcosa di strano” la scorsa primavera, proprio durante il seminario che da qualche anno Roberto teneva, in qualità di ‘testimonial’ sull’economia africana, nei miei corsi all’Università di Genova. Di tanto in tanto non gli venivano le parole ed io lo convinsi a farsi vedere dal suo medico. Da una Tac di qualche giorno dopo – ricorda Soro – il terribile responso: gli diagnosticarono un tumore di quelli che non avrebbero lasciato scampo. Roberto ha affrontato il suo calvario con grande dignità, quasi con gentilezza, come aveva sempre vissuto e ci ha lasciati il 1° dicembre 2013”.
Ma il sogno di Roberto Nani, il suo progetto di aiutare chi, in Africa, vive al di sotto della soglia di povertà, portando là le risorse e gli strumenti che consentano a quei popoli di migliorare, e di costruire un futuro migliore, continua. Quest’anno, grazie all’ICS (Istituto per la Cooperazione allo Sviluppo), la Stralessandria di venerdì scorso è stata dedicata proprio a Nani, e la stessa organizzazione ha in progetto la realizzazione di alcune iniziative a Mitava, il piccolo villaggio del Mozambico che Roberto aveva nel cuore come una ‘seconda patria’, poco distante dalla città di Lichinga, capoluogo della regione dello Niassa, dal nome del grande lago presente in quella regione, dove viveva nei suoi soggiorni mozambicani.
Ma chi era Roberto Nani? E cosa ha fatto di importante negli ultimi vent’anni della sua vita, per cui oggi è giusto non solo ricordarlo, ma anche cercare di proseguire la sua opera? Nessuno, probabilmente, potrebbe spiegarcelo meglio (e con passione più vibrante) del professor Soro.
Professore, la terribile alluvione di cui il prossimo autunno verrà celebrato il ventennale a lei regalò anche un grande amico….
E’ così: una persona speciale, straordinaria. Che incontrai per la prima volta, superficialmente, proprio in quei primi giorni di emergenza, in cui eravamo tutti nella disperazione: tranne lui, forse, che da grande organizzatore quale è sempre stato, oltre a badare alla sua abitazione distrutta e a quella delle “sue donne”, la mamma Velia e la zia Amelia, coordinava e gestiva i piccoli e grandi problemi di ognuno da vero professionista. Ma l’amicizia con Roberto nacque nei mesi successivi, in quel 1995 che vide la costituzione dell’Associazione di protezione civile Orti Sicuro, messa in piedi grazie alla solerzia del nostro parroco Don Gino Casiraghi, che tuttora la presiede e da un ristretto gruppo di alluvionati, Orti Sicuro ha sempre avuto in Roberto Nani la sua anima più spontanea e generosa, un vero punto di riferimento. Dal punto di vista umano lui ed io ci siamo subito riconosciuti come fratelli, come se fossimo cresciuti insieme, conoscendoci da sempre. Lui alessandrino doc degli Orti, ed io novese (anzi di Tassarolo, per la precisione) ‘alessandrino mio malgrado’, vivendo agli Orti dal 1988.
Qual era la storia personale di Roberto Nani?
Roberto nacque nel 1944: tra pochi giorni, il 18 maggio, avrebbe compiuto settant’anni, e l’idea che non ci sia più è difficile da accettare. Ha lasciato davvero un vuoto che non si può colmare. Era un uomo colto, oltre che buono e generoso. Dopo la laurea in Lettere, a Torino, militò dal 1969, e per tutta la parabola del movimento, in Lotta Continua qui ad Alessandria: e i suoi compagni di allora raccontano come fosse il più lucido sul fronte dell’organizzazione e della logistica. Uno che sapeva prevedere e prevenire i possibili momenti di scontro e di tensione: pianificava sempre in anticipo tutto quel che era necessario fare in caso di emergenze. Così fece, poi, per tutta la vita. Insegnò a lungo lingua inglese in alcune scuole medie cittadine (ma ha insegnato pure nei corsi serali delle 150 ore per i lavoratori): e della letteratura inglese, come di quella tedesca, era grandissimo e raffinato conoscitore. Era un piacere conversare con lui insomma, di letteratura come di politica, di economia o di qualsiasi altra cosa. Ed era anche (insieme a mia moglie, in realtà) il mio editor: nel senso che leggeva tutto ciò che scrivevo, sia in termini di articoli che di libri. E mi criticava con grande sincerità, quando necessario, come deve fare un amico.
Quando e come Roberto Nani ha ‘incontrato’ l’Africa?
Ci arrivò, mi ha raccontato, passando da Cuba. Ossia ci fu un momento della sua vita, negli anni Novanta, in cui Roberto (anche a seguito della scomparsa della sua compagna alla quale era molto legato e che assistette nella malattia con estrema dedizione) ritenne “di dover respirare aria nuova, di vedere nuovi posti”. E partì, non da “turista organizzato”, ma da vero esploratore, per Cuba, dove trascorse un’intera estate, cercando costantemente il confronto umano con le persone, per conoscerle, per capire. In particolare fu impressionato dal fatto che il regime castrista aveva investito enormemente sulla formazione culturale dei giovani, e sulla sanità: al punto da offrire anche istruzione universitaria gratuita ai ragazzi e alle ragazze di altri Paesi poveri. Ma notò pure che, fuori dalla capitale, nel resto dell’isola, negli ospedali mancava tutto, dalle medicine ai lacci emostatici, alle siringhe.
E non stette con le mani in mano…
Esattamente. Al suo rientro ad Alessandria, prese contatto con quella splendida realtà dell’ICS, con la quale elaborò un progetto di ristrutturazione dell’ospedale infantile Josè Luis Miranda di Santa Clara (la cittadina famosa in tutto il mondo per ospitare il Mausoleo dedicato a Che Guevara), che ottenne un contributo finanziario, se non ricordo male, del Ministero degli Esteri. Perché Roberto era fatto così: se si prefiggeva un obiettivo, puntava in alto. Poiché il Ministero subordinò l’erogazione dei fondi per quel progetto a condizione che fosse seguito da un italiano sul posto, egli si mise in aspettativa dalla scuola e partì per Cuba. Fu durante quella permanenza che conobbe Carlota, una studentessa mozambicana che stava per laurearsi in Giurisprudenza, la quale lanciò a Roberto la nuova sfida: “Se vuoi vedere e capire la vera povertà, vieni in Mozambico”.
E Nani accettò?
Certo, e lì nacque il suo amore e il suo impegno per il Mozambico, che Roberto ben racconta nel libro Dona Ana, Mozambico, Africa: la cui prima edizione è uscita nel 2007, e di cui sto curando personalmente la riedizione, che sarà pronta, mi auguro, per l’autunno. Lì emerge con forza il senso della sua esperienza umana, ma anche la sua capacità di analisi della realtà socio-economica, che mi spinse a coinvolgerlo stabilmente come relatore nel seminario che da qualche anno teneva (con la scusa che l’avrei invitato “a mangiare il pesce”), fino a quello dello scorso anno, iniziativa che senza di lui ha perso gran parte del suo significato. Roberto arrivava in aula e, come un attore navigato, affascinava immediatamente i miei studenti estraendo dal borsone che portava sempre con sé in quelle occasioni, tutti “gli attrezzi del mestiere”; un machete, una zappa, un minerale raro, due piccoli contenitori di olio e sale e una provetta contenente una zanzara: l’animale più pericoloso che si può incontrare in Africa, ammoniva senza ironia. Da quegli strumenti, simbolo del Continente africano e delle sue contraddizioni, imbastiva un racconto che non mancava di impressionare.
Quanto è durata la sua esperienza africana?
Direi sette o otto anni, se non ricordo male, periodo nel quale è riuscito davvero a cambiare il volto di Mitava, il villaggio al quale era legatissimo, e la cui popolazione lo considerava e lo considera tuttora un grande benefattore. E’ una zona quella, nella regione del lago Niassa, in cui manca semplicemente, tutto. Le persone vivono in capanne di fango e paglia, palhotas, dove chi ha un paio di sgabelli o sedie è fortunato. Naturalmente non esiste elettricità, e l’acqua è bene scarsissimo: per cui i bambini, e soprattutto le bambine, prima che Roberto facesse costruire il pozzo nel cortile antistante la scuola elementare, smettevano quasi subito di andare a scuola, o non ci andavano del tutto, in quanto il loro compito era quello di procurare l’acqua necessaria per i bisogni della famiglia, percorrendo quotidianamente i 14 chilometri a piedi (7 all’andata, e 7 al ritorno), che separavano il villaggio dalla fonte d’acqua più vicina. Trasportandola in grandi e pesanti brocche sulla testa, come faceva mia nonna con il cesto dell’uva. Aggiungiamoci che la sanità è di fatto inesistente, e che gran parte delle persone vive con meno di due dollari al giorno (considerata dalle Organizzazioni Internazionali la soglia di povertà estrema). Gli abitanti di Mitava si nutrono essenzialmente di una sorta di polenta bianca, la xima, preparata dalle donne pestando, con la sola forza delle braccia, il mais nel pilao, un rudimentale mortaio ricavato dal tronco di un albero.
Di fronte ad un simile scenario, Nani da dove è partito per aiutarli?
Dalla scuola elementare. C’era un vecchio edificio abbandonato, eredità del dominio portoghese sul Mozambico. E Roberto ha trovato con determinazione le risorse per ristrutturarlo, e per trasformarlo in una scuola con aule, banchi, lavagne. Occupandosi personalmente di acquistare le materie prime, e di organizzare i lavori. Ha poi insegnato agli uomini del villaggio cosa avrebbero dovuto fare, e li ha messi al lavoro come falegnami, muratori, imbianchini. E in Italia, nelle scuole della provincia di Alessandria, ha raccolto materiali, quaderni, gessi. Tutto quello che da noi è scontato e superfluo, e là invece non lo è. Poi, come ho detto, ha realizzato il pozzo, con l’immediata conseguenza di ‘liberare’ bambini e bambine dall’incombenza gravosa e quotidiana dell’approvvigionamento idrico per le famiglie. E oggi i bambini di Mitava possono studiare, avendo a disposizione l’equivalente delle nostre scuole elementari e medie.
Perché il libro di Roberto Nani si intitola “Dona Ana”?
Dona Ana era la colf che la famiglia di Carlota gli procurò durante la sua prima trasferta in Mozambico e che lo assistette anche nei soggiorni successivi. Dona Ana era una donna di etnia bantu, che sapeva leggere e scrivere, ed è fra i protagonisti del libro di Roberto, con pagine davvero toccanti, come la storia di Francisquinho, il rubicondo bambino di Dona Ana. Solitamente scrupolosissima, racconta Nani, non si presentò per un paio di giorni al lavoro. Andò a cercarla nella sua palhota e fu così che apprese la causa della sua assenza: il figlioletto di 7 anni stava male. Accortosi che il bambino aveva la febbre alta, chiese il motivo per cui non venisse curato: “Non ho i soldi, rispose Dona Ana, per portarlo in ospedale”. Roberto se ne occupò immediatamente e gli salvò la vita. Sapete quanto costava la visita dal dottore, e la cura che gli diede? L’equivalente di 25 centesimi di euro! Di situazioni come questa, Roberto ne ha vissute parecchie. Poi, tornando ad Alessandria, diceva a me, che in quegli anni mi occupavo di Economia dello sviluppo, che “se non si vive in certe realtà, non si può capire cosa significa”. L’ultima sua realizzazione, finanziata proprio grazie alla vendita del libro (pubblicato con il contributo dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Alessandria), è stato il “mulino per le bambine”: una macina per il mais, grazie alla quale le bambine sono state liberate dalla “banalità del bisogno” (dal titolo di uno dei cinque racconti inediti scritti da Roberto che verranno inseriti nella riedizione di Dona Ana).
Ora che Nani non c’è più, che ne sarà del suo lavoro?
Come ho scritto nel ricordo in occasione dell’inserto speciale de Il Piccolo dedicato alla Stralessandria, “Roberto Nani vive”. Da grande organizzatore qual era, infatti, in qualche modo aveva pensato anche a questo. Sulla scia del percorso avviato da Roberto Nani, l’ICS di Alessandria sta predisponendo alcuni progetti in Mozambico. Il sogno di Roberto, mi ha confidato un giorno, sarebbe stato la realizzazione di un acquedotto per la città di Lichinga, Un modo per garantire non solo la sopravvivenza, ma una prospettiva di crescita ai tanti villaggi che, come Mitava, sorgono alla periferia e nei dintorni della città. Sarà certamente un cammino lungo, e che dovrà confrontarsi con tante variabili, di ogni tipo. E, naturalmente, c’è assolutamente bisogno di altri uomini straordinari, come Roberto, capaci di mettersi sempre nei panni dei più deboli, ma senza mai piangersi addosso, di cercare tutte le soluzioni percorribili per intervenire, e modificare in meglio la realtà.
Ettore Grassano