di Danilo Arona e Bernardo Beisso
Ed eccoci a ospitare ancora una volta l’amico Bernardo che continua nella sua tenera e appassionante rievocazione della storia di uno dei più significativi gruppi dell’era beat alessandrina. Una storia e un’epoca in cui molti “superstiti”, miei coetanei, possono specchiarsi e ritrovare sensazioni del bel tempo che fu. Qui sotto gli Squali immortalati in preziosi scatti degli anni Sessanta. Quindi la parola passa a Bernardo.
Indimenticabile esordio, un miscuglio di emozione, sudore, impaccio, applausi, sì, perché ci furono applausi, consensi e non solo dai parenti e dalla claque di amici che ci avevano seguito, ma da tutto il resto del pubblico presente che ballò al ritmo dei nostri pezzi.
Straordinario effetto quando tu suoni e altri ballano sul tuo ritmo: c’è qualcosa di magico, e come un pifferaio da favola la gente ti segue se acceleri, cambia il passo se rallenti, si quieta alla tua cadenza in un’alternanza da te gestita e quel rito ti fa star bene; in quel momento la tua musica è allegria, struggimento, messaggio e balsamo per qualcuno.
Tra quei ballerini vi era anche un gruppetto di ragazzi di San Michele che cercava un complesso “moderno”, probabilmente a poco prezzo. Dopo il nostro exploit mentre gli amici ci circondavano festeggiandoci, mentre mio fratello, ridendo sotto i baffi, riprendeva il suo repertorio, quei ragazzi ci avvicinarono e ci proposero il primo vero contratto.
Alla SOMS di San Michele, in occasione della festa carnevalesca della Pentolaccia, il 20 febbraio 1966 la serata sarebbe stata allietata dal complesso Gli Squali. Il compenso pattuito era di £ 25.000 da cui si dovevano detrarre £10.000 per l’affitto dell’impianto microfonico, manco a dirlo fornito dalla premiata ditta Tito Vercelli, la marca dell’amplificazione era “MEAZZI” con la bobina che scorreva su quattro testine per riprodurre l’effetto eco, l’unico effetto che si conoscesse allora (ora… ora… ora…ora); peccato che alla terza canzone, vuoi per la nostra inesperienza, vuoi per il logorio dell’apparecchio, lo stesso si ruppe lasciando le nostre inesperte voci asciutte e metalliche.
Dotazione sul palco: un amplificatore, un mixer, tre aste e tre microfoni di quelli quadrati sempre “MEAZZI”, più le casse acustiche, due bestie che a fatica issammo e sistemammo sul portabagagli della 1500 Fiat.
Ho fatto l’elenco di tutti i componenti dell’impianto, a cui aggiungere naturalmente i tre amplificatori delle chitarre e la batteria di Roberto, per farvi capire le difficoltà incontrate nel sistemare tutto questo popò di roba su una lunga e stretta balaustra che correva abbarbicata ai muri del salone a circa 3 metri d’altezza. Il più sacrificato era Roberto che picchiava dolorose gomitate ogniqualvolta il pezzo richiedeva un passaggio sul timpano o sul charleston: le sue imprecazioni venivano captate dal microfono-spia che solo in seguito avremmo imparato a domare, risuonando nella sala tra i testi delle canzoni.
La serata fu lunga e faticosa, dalle 21 all’una, e ci toccò ripetere più di una canzone. Inoltre i “blues Stellio”, sul giro di MI, furono sicuramente più di 10. Arrivammo alla fine stanchi e disidratati per i litri di sudore elargiti dall’emozione ma soprattutto per la gigantesca stufa, costruita con un barile di ferro, perennemente incandescente posta proprio sotto di noi. Ma eravamo eccitati e quando il presidente della SOMS ci pagò, la spossatezza svanì; il primo denaro guadagnato col sudore della fronte era lì in mano mia, ben 3500 lire che non erano neanche poco all’epoca.
Un’altra cosa imparai quella sera: anche se suonare e cantare risultava piacevole e gratificante, ci sarebbe stato da sudare.
A San Michele ci ritornammo in marzo; eravamo piaciuti, anche se devo dire che il “cachet” diminuì.
In quell’anno ci sarebbero stati altri quindici servizi, non pochi per dilettanti alle prime armi che dovevano confrontarsi con tante vecchie orchestre che da anni battevano le sale ma soprattutto con la miriade di nuove realtà che sull’onda della musica beat nascevano e scandivano i primi colpi di rullante in provincia.
I contratti più significativi furono: in primavera nel piccolo e affumicato “Big Club” e culminarono con la nostra partecipazione al concorso “Bandiera gialla” organizzato dal duo Marzano – Pavese, concorso che ci vide al quarto posto, risultato che poco apprezzammo vista la presenza di una nutrita compagine al nostro seguito; si parlò di combine, già allora, per i primi tre posti.
Ritornammo, come era ovvio altre volte al “Copacabana” di Valle e per l’ottava della festa del paese vennero installati due palchi; su uno teneva un concerto di musiche da ballo la banda civica del Comune di Alessandria, sull’altra noi ci esibivamo con pezzi per giovani. Un buon successo di fronte a una marea di gente.
Buone affermazioni anche a Mandrogne, dove si suonava, anche lì, nella sala della SOMS, un bel locale sistemato su due piani sempre affollato.
Fu nel 1967 che il gruppo incominciò ad allargare le sue attività al di fuori di Valle e Alessandria; nei venticinque servizi di quell’anno troviamo paesi come Predosa, Pecetto, Sale e Carezzano. In verità nei primi giorni del ’67, è ancora Alessandria a vederci in attività, la festa dell’istituto “Leonardo Da Vinci” (ragionieri e geometri) ci fornisce l’occasione per esibirci nell’aula magna, di fronte a un appassionato pubblico.
In quell’occasione dal palco assistiamo a veri e propri attacchi di fanatismo nei nostri confronti al punto che, mentre intoniamo una indiavolata “I’ll go crazy”, i bidelli sono costretti a intervenire per sedare il ballo sfrenato di alcune studentesse; una di queste, addirittura sverrà e dovrà essere soccorsa nel bel mezzo del marasma.
Alla compagine iniziale si è aggiunto nel frattempo Lele, che oltre a essere un bravissimo chitarrista suona pure la tastiera, strumento ormai indispensabile per pezzi come “Senza luce” e “La casa del sole”, che in più fa da tappeto e sostituisce i sax nella musica soul.
Lele e Stellio trovano subito un accordo musicale invidiabile. Quando uno suona la melodia originale, l’altro ricama sulle scale armoniche; i loro suoni si intrecciano intercalandosi con equilibrio, né l’uno ne l’altro cercheranno mai di prevaricare, e Lele arricchisce l’impatto, la presenza e il repertorio.
Mentre cresce la notorietà del complesso, aumentano i fans e soprattutto le fans; i miei compagni, che sono più esperti e più vecchi, hanno possibilità di approccio con l’altro sesso un po’ in tutti i paesi dove andiamo a esibirci.
Il caso più singolare lo vive Stellio che si fa la morosa sulle strade di Coppi in quel di Carezzano; la incontra, data la distanza, soltanto quando ci rechiamo laggiù a suonare. Lei, carina, lo attende un mese dopo l’altro fedele. Forse…
Anche le capigliature crescono rigogliose, Piero, Stellio e io sfoggiamo una folta frangia diritta e curata a coprire la fronte e lasciamo scendere alle spalle le chiome. Roberto, imperterrito, se evita la sfumatura bassa, mantiene la sua bella riga con ciuffo all’indietro impomatato e compatto.
Non è facile rivendicare la libertà di avere capelli lunghi; io stesso ne faccio le spese e a scuola mi sospendono per tre giorni, proprio per la mia capigliatura. La cosa fa scalpore quanto l’allontanamento che deve subire una mia compagna che si è presentata alle lezioni in pantaloni. Anche in quella situazione ricevo la solidarietà dei miei genitori; mio padre non ritiene neppure di dovermi accompagnare a scuola così lo sostituisce lo zio Ottavio che appena si accorge che il preside, che ci sta attendendo, presenta una vasta calvizie, lo apostrofa in dialetto e, diciamo così, lo rassicura sulla mia pulizia.
Dopo questo episodio, nella mia scuola ci sarà un aumento visibile della lunghezza dei capelli. Ci troviamo infatti alle porte della contestazione. Anche l’abbigliamento cambia, il nostro repertorio si arricchisce di canzoni floreali: la tendenza di quel momento punta verso il movimento hippie, così le camice a sbuffi e le maglie a righe orizzontali lasciano il posto a casacche variopinte di fiori stile fodera da materasso.
Nel 1968 gli interventi del complesso per serate o pomeriggi musicali sono una cinquantina, ma se pure la quantità e la qualità e con loro la notorietà aumentano, la vita ci presenta il conto: la svagata età in cui ti senti padrone del mondo sta ormai passando e gli impegni sociali (il militare, il lavoro) e quelli personali (gli esami, l’università, la fidanzata) incominciano a minare, volenti o nolenti, la compattezza del gruppo.
La formazione cambia spesso e le dimissioni di qualcuno sono rimpiazzate con altri musicisti: mio fratello, quando non è impegnato con i suoi tanti gruppi; Roberto Vergagni che, lasciato il basso, muove i primi passi con la chitarra; Rino Corrao, tastierista soprannominato “Beethoven” in occasione della festa di Rivarone.
La voglia di innamorarsi fa le sue vittime: Stellio corteggia e conquista la spumeggiante Lucia; Piero, con calma serafica, ci presenta Piera, una signorina di Canelli molto appariscente; Roberto conosce la posata Rosanna, io continuo imperterrito ad aspettare l’inavvicinabile Graziella.
Tutti noi convoleremo in anni diversi a giuste (si fa per dire) nozze con le medesime.
Lele ci lascia per l’università di ingegneria che lo porterà lontano da Alessandria.
Dopo molti anni imparerò come la compagna di un musicista debba avere un grado di sopportazione notevole, se no il rischio per la coppia è considerevole. Si incomincia con «Ma suoni anche sabato?» e si finisce con «Scegli: o me o il complesso!» , e quante formazioni musicali, anche di notevole spessore, si sono sciolte per questo motivo…
Forse anche Gli Squali non si sottrassero a quella legge; devo dire però che nonostante lo scioglimento del gruppo, al contrario di molti altri, noi rimanemmo amici, al punto che ancora oggi dopo tanti anni non disdegniamo di ritrovarci tutti o in parte per strapazzare vecchi motivi del nostro repertorio.