Oh mamma, sta a vedere che adesso ci scappano pure i Moretti, i Mastrapasqua (l’originale già è stato congedato, ma la categoria è ampia)
e tutto il gotha del nostro management pubblico d’alto bordo, sotto minaccia di decurtazioni di stipendi da parte del governo Renzi.
Il sessantenne top manager delle Ferrovie dello Stato, in particolare, è stato chiaro e minaccioso, e qui potete apprezzare il suo cv trentennale, di stretta osservanza pubblica, anzi ferroviaria. Ognuno può giudicare da sè, e magari i pendolari (e gli ex, come il sottoscritto) con appena un po’ più di acrìmonia, che speriamo ci sia consentita.
Ma siamo onesti fino in fondo: non è che la cultura del ‘poveraccismo’ (citazione pasoliniana) a tutti costi ci convinca particolarmente, e lo abbiamo già segnalato più volte, anche sul fronte alessandrino. Che un manager pubblico debba guadagnare quanto un impiegato a tempo indeterminato, o poco più, non è credibile, come non lo è nel privato.
A ruoli apicali è legittimo debbano corrispondere non solo stress e impegni, ma anche retribuzioni adeguate. Il tutto, però, in una logica di verifica costante dei risultati ottenuti, con annessa rimozione quando questi non arrivano.
Ebbene, le domande sono due soltanto:
1) quanti top manager pubblici hanno ottenuto, durante la loro gestione, risultati positivi dal punto di vista non solo della redditività, ma della valorizzazione strategica dell’azienda, di proprietà appunto non loro, o di una singola famiglia che è libera di fare ciò che crede, ma dello Stato, e affini?
2) quanti manager pubblici italiani conoscete che, negli ultimi trent’anni, abbiano scelto di andare a lavorare all’estero, o siano stati chiamati appunto a ruoli di responsabilità fuori dal suolo patrio, o anche in aziende private nostrane?
Facciamoci delle domande. E diamoci delle risposte, appunto. In attesa della fuga del cavallo morto.