“Sarei pronta a ripartire anche domani, nonostante l’ultima spedizione in Antartide sia stata, oltre che bellissima, anche molto dolorosa. Là sento pulsare nella mente e nel cuore lo stesso entusiasmo di vent’anni fa, quando ho cominciato ad occuparmi di ricerca scientifica. Ed è bellissimo”. Quando pronuncia queste parole, negli occhi di Paola Rivaro vedi una scintilla di passione vera, tipica di chi è riuscito a fare da grande quel che sognava in gioventù. La dottoressa Rivaro è una di quelle ‘eccellenze’ di cui un territorio (il novese in questo caso, ma possiamo anche allargarci un po’, su scala provinciale) dovrebbe menar vanto, e che invece magari passano ‘sotto traccia’, in una società più incline a coltivare il mito delle ‘starlette’ televisive, o sportive. L’abbiamo incontrata un sabato mattina, nella ‘sua’ Novi, dove non ha mai smesso di vivere, facendo la pendolare con Genova (è ricercatrice presso il Dipartimento di chimica e chimica industriale dell’Università, prossima alla nomina a professore associato) e, spesso, la protagonista di ‘missioni impossibili’ ai confini del mondo, come oceanografa chimica. Proviamo a raccontarvi la sua storia.
Dottoressa Rivaro, dalla piccola Novi Ligure alle spedizioni in Antartide non è un percorso da tutti. Lei da bambina già si immaginava esploratrice tra ghiacciai e mari lontani, o è successo tutto casualmente?
Nulla succede casualmente. Conservo ancora, a casa, il primo microscopio che mi fu regalato in famiglia alle medie, poco più che un giocattolo naturalmente: ma già allora, in fondo, sentivo che la biologia era nel mio destino. E alla maturità classica, qui a Novi, nonostante amassi moltissimo la lettura, e la letteratura, dichiarai decisa i miei intenti alla commissione esaminatrice. Poi, certo, nel percorso di studi e professionale sono decisive le occasioni, e i maestri. Io a Genova ne ho avuto grandissimo, che tra l’altro è ormai da molti anni alessandrino, quindi lo cito ancora più volentieri: il professor Roberto Frache. Collaborare con lui, dal dottorato in poi, è stata una splendida esperienza scientifica, ma anche e soprattutto umana. Ricordo che, quando da biologa entrai come ricercatrice al dipartimento di chimica ero assolutamente intimorita, percepivo che molti miei colleghi avevano un tipo di formazione diversa dalla mia. E fu il professor Frache a farmi capire che proprio quella diversità poteva e doveva diventare un valore aggiunto.
A quel punto, lei avrebbe potuto intraprendere un percorso accademico diciamo ‘normale’, tranquillo. Invece?
Era il 1994, quindi esattamente vent’anni fa. Stavo ancora facendo il dottorato in realtà, e naturalmente studiavo l’ambiente marino, quando mi arrivò la proposta: cercavano personale per una spedizione in Antartide, e volevano una risposta, sì o no, in due ore. Naturalmente ho accettato, e fu il mio battesimo. Da allora ho partecipato a 6 spedizioni: 1994 – 1998 – 2001 – 2003 – 2006 – 2014.
Ma come funziona quel mondo, per noi comuni mortali circondato di mistero, e dal fascino delle missioni ‘estreme’?
(sorride, ndr) In realtà naturalmente è tutto frutto di grande organizzazione, sono progetti inquadrati nel programma di ricerca nazionale con l’Antartide coordinato da Ministero e Università, con la collaborazione di Enea e Cnr. Si viene, da matricole diciamo così, sottoposti a settimane di addestramento in montagna, sui ghiacciai, e anche di verifiche attitudinali, fisiche e psicologiche. Dopo di che, se si è ritenuti idonei, si viene inseriti all’interno della spedizione, con specifici compiti di ricerca. E si parte.
Detto così sembra facile, dottoressa Rivaro. Ma vivere due mesi in Antartide, dove è sempre giorno, o sempre notte, a temperature polari…non è da tutti.
Certamente, ma spieghiamo un po’ meglio. L’Italia in Antartide ha due basi. La prima, nel mare di Ross, verso la Nuova Zelanda, si chiamava baia di Terranova, e ora porta il nome di base o stazione Mario Zucchelli. E’ in realtà una base solo estiva, utilizzata cioè da fine ottobre a metà febbraio (là il ciclo delle stagioni è invertito, ndr). Poi c’è la base permanente italo-francese, che si chiama DomeC o Concordia, dove c’è sempre un presidio di almeno una decina di italiani, tutto l’anno. Di lì sono anche passata, ma senza mai fermarmi, e confesso che l’idea di trascorrerci 60 giorni d’inverno, barricata dentro con fuori sempre buio e -60 gradi, non mi attrae gran che.
Lei invece, nelle sue spedizioni, lavora per lo più in mare, sulla nave cargo-oceaografica?
Esatto, è così. La nave, di 130 metri di lunghezza, può ospitare fino a 100 persone, ma in genere tra equipaggio, tecnici e scienziati siamo una cinquantina. Di proprietà dell’armatore napoletano Attanasio, il cargo trasporta gasolio, viveri, e tutto il materiale che serve ai colleghi che lavorano nelle basi in Antartide, ma è anche ottimamente equipaggiata sul fronte della strumentazione per la ricerca. Parte da Ravenna, ma gli scienziati di solito salgono in Nuova Zelanda (dove si arriva in aereo da Milano, con ‘sole’ 40 ore di volo!). Da lì, comincia il lavoro di ognuno. Per quanto mi riguarda, opero all’interno del progetto Rome, e mi occupo di acqua, diciamo così. Ossia studio gli effetti dell’aumento dell’anidride carbonica (il famigerato effetto serra di cui tutti abbiamo a lungo sentito parlare, a dire il vero più negli anni scorsi che attualmente, ndr) sulle caratteristiche delle acque del mare di Ross, che poi naturalmente si trasferiscono al resto delle acque e degli oceani. Diciamo che i cambiamenti climatici dell’Antartide e delle zone polari sono campanelli d’allarme per tutto il resto del pianeta. Naturalmente se c’è la volontà e la sensibilità di coglierli, e interpretarli.
Ma cosa si prova a sapere di dover vivere per due mesi su una nave in mezzo ai mari e ai ghiacci antartici?
Per me è sempre un’esperienza bellissima, assoluta. In quel momento, a stretto contatto con altri scienziati come me, sento tornare le energie e l’entusiasmo di quando facevo il dottorato. Mi confronto con i ragazzi di oggi, e rivedo in loro la mia stessa spinta alla ricerca, anche se magari con un po’ più di disincanto, figlio dei tempi e di questo Paese. Però in quel momento sento di fare pienamente il mio mestiere di scienziato, là dove all’Università, non credo sia un mistero rivelarlo, spesso si viene travolti dalle pratiche burocratiche, in senso lato, e il tempo per studiare davvero e fare ricerca è sempre meno. Anche se, preciso, a me insegnare e seguire le tesi degli studenti piace moltissimo: è il resto che a volte diventa stucchevole, le mille commissioni, le riunioni infinite….in Antartide tutto ciò non c’è…e non mi manca!
Quest’anno però, durante la spedizione, è successo un fatto tragico: per la prima volta uno scienziato italiano, Luigi Michaud, ha perso la vita durante un’immersione….
(tace per un istante, poi racconta con gli occhi lucidi, e una commozione crescente, ndr)
E’ un dramma che ho vissuto in diretta, per così dire, e che ha segnato tutti noi, rendendoci se possibile ancora più uniti. Luigi era un uomo di quarant’anni, solare, esuberante e, naturalmente, innamorato del proprio lavoro. Angela, sua moglie, è anche lei biologa, ha fatto anche lei spedizioni in Antartide, e hanno due bambini piccoli, di 6 anni e di 6 mesi. Insomma, una tragedia di fronte alla quale siamo ammutoliti. Michaud stava facendo la sua terza immersione durante la spedizione, si è sentito male sott’acqua, e non c’è stato modo di salvarlo. Era venerdì 17 gennaio, non me lo scorderò mai. La salma è poi rientrata in Italia, mentre la spedizione, naturalmente, non poteva fermarsi. In contemporanea ai funerali, avvenuti il 4 febbraio all’interno dell’Università di Messina, noi ci siamo fermati, eravamo tutti sul ponte in silenzio. E la nave ha fischiato a lungo, a lutto, davanti alla nostra base. Ho pianto dall’inizio alla fine, e più tardi, tutti insieme, abbiamo cantato Imagine di John Lennon, sul ponte della nave. Luigi era lì con noi, glielo assicuro.
Lei dottoressa Rivaro è ormai una veterana di queste spedizioni scientifiche internazionali: Internet e tutto il mondo delle tecnologie legate alla rete hanno cambiato il vostro modo di lavorare laggiù?
Moltissimo: nel 1994, quando feci la mia prima spedizione, i contatti dalla nave con il resto del mondo erano ancora affidate, ricordo, al filtro del ‘marconista’, e ai fax. Ne ricordo uno tenerissimo, con l’immagine della mano del figlio, di pochi anni, di una mia collega di spedizione, che salutava la mamma. Quest’anno avevamo tutti l’e-mail connessa ai nostri portatili, e alcune postazioni Internet a disposizione sulla nave, sia pur a rotazione. Naturalmente i problemi ci sono sempre: per quasi 24 ore siamo stati senza connessione di rete, perché lì c’è una forte inclinazione verso sud, e l’antenna della nave non era probabilmente posizionata in maniera corretta. Però certamente oggi grazie alle tecnologie si lavora in maniera diversa, più efficace. Per i nostri punti di prelievo in acqua, ad esempio, in Antartide eravamo connessi con l’Università di Napoli, che scaricava dal sito della Nasa le immagini satellitari, e ce le mandava in tempo reale.
Ma quanto le manca Novi, quando è così lontana?
A me piace muovermi, vivere in movimento, forse anche in fuga. Ma Novi è Casa, proprio quella con la C maiuscola: tanto che non mi sono mai neanche voluta trasferire a Genova, anche se la vita da pendolare, notoriamente, non dà troppe soddisfazioni. Quando sono via casa mi manca, tanto. Mi manca meno l’Italia, confesso, soprattutto in questi ultimi tempi. Mi basta rientrare, annusare un po’ che aria tira in giro, e sui media, e già cresce la voglia di ripartire. Vedremo se già a fine di quest’anno, o del prossimo: ma in Antartide ci tornerò ancora, questo è certo!
Ettore Grassano