Una delle critiche più frequenti che mi vengono rivolte dai lettori – ovviamente dall’esiguo numero degli stessi che mi segue nelle diverse incarnazioni, e che di conseguenza non necessariamente consulta questo blog – è che troppo spesso finisco per scrivere cose così improbabili che se da un lato risultano spiritose e divertenti da leggere, dall’altro sminuiscono la portata strettamente giornalistica dei miei articoli, in quanto il lettore non sa più quando sto riportando fatti veri e quando sto narrando fatti inventati.
La prima risposta che mi viene in mente a proposito è la stessa che dava Gabriel Garçia Marquez alle domande del medesimo tenore che gli venivano rivolte a proposito del proprio capolavoro – e probabilmente anche uno dei massimi vertici della letteratura mondiale – Cent’anni di solitudine: «Io non ho inventato nulla, ho solo raccolto organicamente tutte le storie che sentivo raccontare dalle mie nonne e dalle mie zie da bambino e che riguardavano per la maggior parte le origini e la fine dei miei parenti. Per molti è solo una allegoria, ma per mia nonna una mia lontana cugina veramente non era morta ma era ascesa al cielo in una luce soffusa.»
Il sudamerica in questo senso aiuta molto a creare il giusto clima di sospensione dell’incredulità per poter apprezzare in fondo le astute maschere che si sovrappongono nella narrazione alle durezze della vita: il basso alessandrino, in questo senso, si assomiglia molto alla Macondo di Marquez dove curiosamente non appare mai nemmeno di straforo l’argomento calcistico che invece qui va per la maggiore, ed il mondo del calcio dilettantistico nel basso alessandrino vive di aneddoti come qualsiasi altro micromondo.
Non voglio insultare l’intelligenza di nessuno affermando che tutto quello che ho raccontato, che racconto e che racconterò è legato a fatti di attualità strettamente verificabili: quello che mi interessa difendere però è che ogni cosa di cui io abbia mai scritto nei miei articoli sportivi è accaduta, solo magari un po’ più spoglia di significati e contorno. Spesso chi legge non ha piena conoscenza di tutte le interferenze pregresse in un semplice gesto – uno spettatore piovuto da Marte la sera di Roma-Fiorentina del 2000-01 sarebbe rimasto altrettanto colpito dalla composta esultanza di Batistuta al gol partita a meno di dieci minuti al termine? – e comunque l’uomo è animale affabulatore per natura. Ci si raccoglie davanti ad un monitor come un tempo attorno ad un fuoco, e illuminati da una pallida luce ci si dividono le esperienze ed i ricordi perchè rimangano vivi.
C’è un film bellissimo che si chiama Big Fish dove un figlio ritorna controvoglia al capezzale del padre morente perchè ritiene che per tutta la vita egli gli abbia raccontato solo storie sulla sua vita avventurosa e che in realtà fosse solo un triste commesso viaggiatore che tradiva la moglie. L’intero film è bellissimo, ma il momento migliore per me è quando il figlio incomincia a raccontare una storia al padre morente sulla sua stessa morte dove alla fine egli diventa un pesce enorme che salta nel fiume, realizzando finalmente il potere evocativo delle storie stesse nel momento stesso in cui passa ad essere da orecchio a bocca narrante.
Ci sono aneddoti che ho raccontato o sentito così tante volte che non so nemmeno più se siano veri o siano inventati, ma sono abbastanza sicuro di avere vissuto in prima persona certi momenti che se messi su carta sembrerebbero tentativi del narratore di prendere in giro i suoi lettori. Quello che veramente conta, secondo me, è il tempo che riescono a trasportare chi legge in una zona di mezzo fra la propria vita ed il mondo che descrive il narratore: se vi siete letti anche questo post tutto di un fiato, ignari della pioggia che cade fuori dalla finestra e di questo strano caldo inverno che sta per finire, il mio compito è stato assolto.
– Quando un uomo racconta così tante storie, egli diventa le storie stesse. Quelle continuano a vivere anche dopo la sua morte, e in questo modo egli diventa immortale. – Tim Burton