E’ per il motivo addotto nel titolo che ripropongo la storia che segue. Perché spesso la racconto in pubblico e mi rendo conto che pochissimi la conoscono. Invece merita perché la realtà supera spesso la fantasia…
Allora, ci troviamo ai primi di gennaio del lontanissimo 1973 (per la peppazza, 41 anni fa!) e il mio grande amico impresario Walter Olivero mi telefona e mi dice: «C’è un bel servizio da fare a Colleretto Giacosa». La mia successiva domanda è di quelle toste: «Mai sentito. Dove si trova?». Walter, lapidario: «Vicino a Ivrea. In ogni caso vendono le cartine geografiche».
Già, siamo lontani dall’epoca dei navigatori e ci manca più solo che gli impresari si preoccupino di quanto siano imbranati i loro orchestrali.
Comunque né io né i membri de “Il pozzo e il pendolo” (il mio gruppo del momento, Marco, l’Ombra e Olimpio) ci scoraggiamo. Si compra una cartina. Così, nelle primissime ore pomeridiane di domenica 7 gennaio (c’è la nebbia più fitta del secolo con la temperatura a meno dieci), siamo in pista con uno sgangheratissimo furgone Wolkswagen, al solito in affitto a cifre capestro dal mitico Mignone, e la mia cinquecento bianca, con affetto soprannominata “il razzo monferrino”. Partendo alle due, riusciremo a trovare in un muro di nebbia e di silenzio il paese incriminato verso le sei del pomeriggio, quando ormai la tenebra è scesa da un pezzo a complicare ulteriormente la vita.
In Colleretto Giacosa inizia la caccia del locale. Immaginiamo una Soms, una sala parrocchiale, un cinema dismesso. Quando finalmente scorgo la luce di un bar, mi fiondo all’interno e chiedo al proprietario dove si suona. Lui, molto gentile, mi indica la piazza del paese a poche decine di metri con la chiesa sulla destra. M’immagino con raccapriccio una saletta parrocchiale con suore, perpetue e marmocchi assatanati, il pubblico ideale per un gruppo la cui sigla d’apertura è Smoke on the Water dei Deep Purple. Percorriamo così gli ultimi metri e, giunti davanti alla piazza, il poco sangue che ancora è in circolo ci si agghiaccia ancor di più. Davanti a noi troneggia, nel suo felliniano e deprimente fulgore, la forma vagamente ufoidale di un verdeggiante ballo a palchetto.
«Stiamo scherzando?» ulula qualcuno alle mie spalle, «Saremo a meno quindici!»
Scendiamo ed entriamo. Quel che vediamo non lascia dubbi. Due addetti stanno preparando tavolini con mazzetti di fiori finti e cartellini con scritto “Prenotato”. Un paio di stufette elettriche pompano una miserrima quantità di aria calda verso il palco. Mi vien male. I miei colleghi sono impietriti. L’unico imperturbabile è l’Ombra, ma per lui trattasi di fatto genetico. Di solito non parla. Né le sorprese della vita paiono scalfirlo.
Gli addetti ai tavoli sono muscolosi e allegri. «Ah, non vi preoccupate», bofonchia uno dai lineamenti ariani, percependo l’intensa espressione drammatica dei nostri volti, «Ci sarà tanta di quella gente che sarete costretti a staccare le stufe». La situazione è chiara. E iniziamo, in quel clima polare (con la nebbia che entra persino sotto il palchetto), a montare gli strumenti e a preparare il palco per la festa. Alle otto finiamo e andiamo a spararci un panino al bar. Alle otto e venti arriva di corsa l’ariano trafelato: «Ragazzi, sbrigatevi, che alle otto e mezza s’inizia!». Ulteriore mazzata. Ma chi verrà a ballare alle otto e mezza, con quindici gradi sotto zero, in quel posto da lupi?
Ingolliamo il panino e ci dirigiamo di nuovo verso il palchetto. La nebbia è fittissima e noi sembriamo quattro dispersi della campagna di Russia, con sciarponi, purilli e supporti lanosi per coprire le orecchie. Saliamo sul palco. A nessuno viene in mente di spogliarsi per suonare. Anzi, prendo il guanto sinistro e con le forbici taglio via con un sol colpo la lana che calza le dita. Il guanto destro lo posso tenere intatto. Ho trovato così il modo per suonare senza rinunciare alla protezione dei guanti. Alle otto e trenta attacchiamo la sigla. Come sente il riff della chitarra distorta, l’ariano si precipita verso il palco e urla: «Per carità, fate del ballo liscio, se no vi menano come dei batacchi». Capiamo l’antifona e iniziamo l’immortale Chi gettò la luna nel rio. In men che non si dica, qualcosa come duemila (avete letto bene, duemila) persone accalcano inverosimilmente lo spazio del ballo tenda.
E’ tutto un valzer, una polca, un tango, un paso doble. Non c’è storia per una canzonetta normale e neppure per qualche lento in lingua anglosassone. A Colleretto Giacosa trovano trasgressivo Mino Reitano.
Nonostante la folla, la temperatura resta sempre a meno quindici. E di staccare le stufette proprio non si parla. Ma loro ballano come forsennati e tracannano grappa come se ci trovassimo in un dirupo friulano. Come giungiamo a fine di serata (più o meno intorno alle due), è un mistero ancora oggi. Ma non abbiamo delle belle cere. Tossiamo, starnutiamo e qualcuno si tocca la fronte perché teme di avere la febbre. La gente lentamente se ne va. Noi smontiamo in fretta, ansiosi di porre fine a quell’incubo a occhi aperti.
Il giorno dopo, influenzato, racconto tutto a Walter, che non ci crede. Ride come un matto, ma sotto sotto è convinto che io mi inventi tutto. Oggi Walter è in pensione, io quasi. Quando c’incontriamo, dopo due minuti vuol sentirmi raccontare la storia di Colleretto Giacosa. Un breve viaggio nel passato che poi alla fine provoca una risata amara… 41 anni, accidenti, come se non fossero mai trascorsi.