Si può parlare di fallimento della scuola italiana? Sì, certo che sì! Ne ha parlato esplicitamente Adolfo Scotto di Luzio nel suo libro La scuola che vorrei che, alla presenza dell’autore, l’Associazione Arcipelago ha presentato lo scorso ottobre presso la libreria Mondadori.
Negli ultimi 30 – 40 anni, la nostra scuola, massacrata da ‘riforme’ a ripetizione, di sinistra e di destra, ha completamente rinunciato al suo compito istituzionale che sarebbe quello di fornire ai discenti quell’insieme di informazioni di carattere storico culturale che permettano loro di orientarsi nel mondo in cui si troveranno a vivere la loro vita da adulti. Correre dietro al quotidiano alla ricerca di competenze specifiche, come ora si sta facendo, anche nel migliore dei casi non può che portare a individualità magari specializzate ma assolutamente prive di conoscenza, di ‘sapere’, di coscienza di sè, della propria identità.
Il problema sta diventando sempre più grave perché, come dice Giorgio Israel, a livello mondiale si va sempre più imponendo un modello relativistico “politicamente corretto che non si presenta con un manifesto esplicito ma avanza per via ministerial-burocratica” e la politica italiana – che potrebbe ben vantare una primazia nel settore, con la riforma gentiliana cui dobbiamo l’unico modello di scuola ancora funzionante, quello dei licei – non fa altro che adattarsi pedissequamente al pensiero unico occidentale, accumulando disastri su disastri.
Insomma la democratica scuola di massa ha completamente fallito e oggi assistiamo impotenti al fenomeno delle élite che stanno progressimamente abbandonando la scuola pubblica, col risultato ai approfondire ancor più il solco che si era proposta di colmare. “I ricchi – afferma persuasivamente Scotto di Luzio – si separano dalla scuola di tutti, che diventa così un servizio con basso livello di attese per la moltitudine”. Non a caso il volume è stato oggetto di una lusinghiera recensione da parte di Ernesto Galli della Loggia apparsa sul Corriere della Sera, nella quale si sottolinea appunto come la scuola di massa abbia tradito la scuola di cultura e che in realtà era proprio il retaggio umanistico, contro il quale si è combattuta una lunga guerra nel nome di una malintesa ‘democratizzazione’, a creare le basi per l’uguaglianza.
L’autore individua, negli anni in cui si faceva strada la società dei consumi, la contraddizione che si annida nelle origini stesse della scuola democratica la quale, afferma, “contiene in realtà due ipotesi divergenti”, da una parte la storia comune e dall’altra la “metodologia della cooperazione educativa”. La prima destinata a soccombere e la seconda a chiudersi nell’arido recinto dell’autoreferenzialità. In vero la nostra scuola, sempre più orientata verso un atteggiamento up to date, non fa altro che recepire nel proprio corpo la “delegittimazione dell’insieme dei principi di giustizia” che, almeno a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, ha portato alla “normalizzazione dei costumi sulla base delle scienze sociali”. Mentre sempre più sbiadivano le norme collettive, è prevalsa “una sorta di contrattualizzazione del quotidiano; o meglio, la sua devoluzione a delle mere pratiche di gestione, la sistemazione alla meno peggio dei rapporti tra le persone garantita dall’expertise di qualche specialista”. Un percorso che la disoccupazione endemica ha ulteriormente rafforzato con la risultante di una più aspra, anche se meno percepita, ablazione dei principi di uguaglianza a vantaggio delle dispàri condizioni di partenza. “Nelle forme di una calorosa sollecitudine per la persona, la scuola della società senza lavoro organizza la nuova disuguaglianza sulla base di una distinzione sempre più netta tra il massimo della concentrazione della qualità dell’istruzione, e dunque del lavoro richiesto, in una cerchia ristretta di individui altamente motivati e un circuito scolastico a bassa intensità di contenuti culturali e di impegno individuale destinato a una massa di percettori di quello che possiamo definire una sorta di reddito minimo garantito applicato all’istruzione”.
Si tratta della drammatica radiografia di una situazione che rende anche ragione di una realtà che altrimenti si fatica a capire, quella di milioni di giovani sfiduciati che ormai neppure cercano lavoro, ma si limitano a sopravvivere, isolati nella paralisi nichilistica di chi non possiede gli strumenti culturali per interpretare il mondo, prigioniero del rifiuto sdegnato (o ‘indignato’) di un presente che lo disgusta e di un passato che ignora, guardando sgomento avanzare i fantasmi di un plumbeo futuro.
Quello di Scotto di Luzio è quindi un libro al di fuori della cultura mainstream, un libro che invita a pensare, a discutere e lo fa comunicando un senso di urgenza che non è l’ultimo pregio del suo lavoro: “Prodotto di un lavoro critico di discriminazione, la cultura è essa stessa la base di esercizio della facoltà individuale di chiarificare e distinguere i significati, perché comporta il riconoscimento di un canone e di ciò che lo sfida ai suoi margini e continuamente lo rimette in discussione, sollecitando una ininterrotta opera di giustificazione razionale dei valori. Alla scuola, dunque, il canone: alla vita di fuori, tutto quello che ne tenta le strutture portanti. E’ questa la mia proposta”.