Tra gli autentici delitti che si celano nelle pagine de Io sono le voci c’è quello indimenticato, al quale Carlo Lucarelli ha dedicato più di un’inchiesta su RAI3, passato alla storia criminale come “il delitto della Cattolica”. Nel libro “maschero” l’evento, delocalizzando il fatto alle Belle Arti di Brera e usando ovviamente dati anagrafici inventati, ma il modello ispirativo è – purtroppo – il vero omicidio di Simonetta Ferrero, 26 anni, trovata cadavere nei bagni dell’Università Cattolica a Milano il 26 luglio del ’71. Si accertò che il brutale fatto di sangue – 42 coltellate inferte con furia assoluta – risaliva al sabato precedente. Il corpo scempiato venne ritrovato da un giovane seminarista un paio d’ore dopo l’apertura della Facoltà.
La vittima era la classica brava ragazza dell’epoca: nessun grillo per la testa, vita limpida e irreprensibile, una bellezza quieta e defilata, senza legami affettivi e senza contatti con i tanti ambienti universitari che possono nascere anche attorno alla Cattolica. La si definirebbe, con un occhio analitico e investigativo molto più vicino ai nostri tempi (che abbondano di delitti senza ragione), una “vittima per caso”, la persona sbagliata nel posto sbagliato. A un’ora altrettanta di un giorno in cui l’Ateneo era chiuso.
E personalmente penso proprio che le cose stiano così: Simonetta, il cui corpo non presentava tracce di tentata o avvenuta violenza, conosceva molto bene quegli ambienti e quei corridoi perché, già laureatasi un paio d’anni prima, vi era unicamente entrata per chiedere informazioni da passare a un’amica. Sapeva quindi come muoversi e con chi andare a parlare e, da lì a un paio d’ore, sarebbe dovuta partire con i suoi per andare in vacanza in Corsica. Il delitto non può essere stato quindi premeditato ma frutto di un incontro occasionale sfociato in un raptus. E’ il classico, come troppi in Italia, omicidio impunito. Le indagini dell’epoca non dispongono degli strumenti e dei metodi contemporanei; per quanto sotto le unghie della ragazza siano rinvenuti dei frammenti di pelle, prova evidente di una disperata lotta con l’aggressore, e per quanto la scena del delitto sia zeppa di impronte, sanguinolente e no, l’indagine non decolla. E non decollerà mai.
Restano in piedi solo delle ipotesi. Quelle fantasiose, da non tenersi in considerazione, di un romanzo come il mio (ma la dinamica omicidiaria degli eventi non penso di discosti poi di tanto da quel che è realmente accaduto) o la teoria, allora nemmeno emergente nelle opere di fiction, di uno o più serial killer all’opera a Milano in quel decennio. Perché le donne uccise nella metropoli lombarda dal ’70 al ’75 sono ben 11 e tutte alla cosiddetta “arma bianca”, alcune di loro in zona Stazione Centrale. Donne normali, senza doppia vita. Un dato di fatto che avvalora la teoria dell’assassino seriale.
Lo scrittore ci va a nozze e non so quanto sia eticamente accettabile. Ma, dietro alle ipotesi narrative anche più strampalate, si possono individuare focolai di possibili verità. Come sostiene la giornalista che in Io sono le voci fa una brutta fine perché ha capito e individuato “chi sente le voci”, ci possono essere più verità in certi romanzi d’intrattenimento che in dieci dispense universitarie. Non è consolante, ma se non altro suona come un invito a leggere qualche nero italiano in più. Affinché soprattutto l’Altra Metà del Cielo stia sempre più in campana; quelli che sentono le Voci sembrano, ahinoi, in esponenziale aumento.