Non ho dati certi sottomano. Almeno non di quelli che emergono da statistiche normalmente analizzate e finalizzate allo studio dell’andamento dei fenomeni sociali ed economici. Spesso sono percentuali frutto di dispendiose consulenze o raccolti sotto il termine “osservatorio” (più uno slogan stantio del nostro politichese, spesso utilizzato da inutili quanto inconcludenti rappresentanti della nostra vita politica). Serve sempre un osservatorio. Buono per ogni occasione, come una giacca blu. Un termine che suona quasi come una beffa da parte di chi si è preso l’impegno di agire. Un osservatorio, un luogo istituzionale che rischia di assumere i contorni di uno spazio dove restarsene seduti in poltrona e osservare, magari cinicamente mentre il Grande Nulla prende il sopravvento su tutto.
Preferisco calzare un paio di scarpe e passeggiare lungo le strade cittadine, del centro come della periferia, osservare e ascoltare. Perché i cinque sensi, in quanto tali, percepiscono, segnalano dei mutamenti e fotografano il divenire di una collettività. E il buon senso, l’ultimo, distingue il vero dal pettegolezzo.
La realtà cui mi riferisco è quella degli esercizi commerciali che chiudono a spron battuto in una città sempre più accartocciata su se stessa. E delle voci che ne segnalano altrettanti in procinto di farlo. Attività anche con nomi di peso.
Poche si trasferiscono in altra zona urbana. Per le rimanenti è un addio. Più o meno, per gli stessi motivi. Una tiritera ossessiva. Non si vende, non si guadagna. Pochi clienti, troppe tasse.
Succede pure nel settore delle grandi catene, dove si decidono le convenienze a tavolino e spesso si trasferiscono le merci in altre città licenziando i dipendenti dalla sera alla mattina. Anche se gli affari non vanno così male, perché la loro clientela di riferimento non soffre troppo la crisi. Conseguenza immediata è che nemmeno più il contratto a tempo indeterminato è una garanzia.
Una situazione del genere la vivono sulla propria pelle le tre commesse di un noto negozio di abbigliamento di corso Roma, invitate con una telefonata improvvisa a restare sul posto di lavoro nella pausa pranzo. E di lì a poche ore un dirigente della ditta, in piedi di fronte a loro, con poche parole e senza anestesia, strappa via tre giovani scalpi, uccidendo speranze nel futuro immediato, progetti di vita e lasciando una feroce cicatrice difficile da rimarginare.
Le strade sono ormai l’esposizione di vetrine nude, spazi bui, vuoti. Un Grande Nulla che sembra svilupparsi a macchia di leopardo minando invisibile l’interno dei pilastri della nostra economia. Sacche di Vuoto che si sviluppano nella materia, che corrodono l’esistente, complice un’arida politica zuppa di luoghi comuni che non riesce a pensare o a immaginare strumenti più creativi per porre un freno al degrado, magari una sorta di Piano Marshall della durata di un quinquennio per mettere uno stop (per un periodo) a regole e balzelli, giusto il tempo per ridare ossigeno a una ferito grave. Invece il Grande Nulla sembra essere sempre più alimentato da un rigore di bilancio che dimostra solo l’aridità mentale di chi lo predica. Non dimentichiamo che se al Grande Vuoto lasciato dagli esercizi commerciali si somma la grave crisi immobiliare con un conseguente crollo di prezzi e l’allontanamento dei cittadini dalla voglia di vivere la propria città, di possederla, occuparla, toccarla, non è così fantasioso pensare che la nostra terra possa trasformarsi in terra di conquista (se già in molti settori non lo è diventata) per speculazioni anche di natura criminale.
Sarà un’immagine da Romanzo Criminale, ma ignorare i primi sintomi vuol anche dire spingere la crisi oltre gli argini del consentito.
Il Grande Vuoto e il Grande Nulla sono dei contenitori. Quello che deve preoccuparci è chi lo riempirà e di cosa.