di Dario B. Caruso
In questi giorni con la famiglia abbiamo ricordato mia madre, quindici anni dopo la sua scomparsa.
Lo abbiamo fatto come di consueto con una messa al Santuario di Savona, la basilica che la vide bambina e alla cui Madonna era particolarmente devota.
Quindici anni.
La celebrazione si apre con la benedizione delle candele, un rito fortemente simbolico che richiama la presentazione di Gesù al tempio e astronomicamente segna il tempo a metà tra il solstizio invernale e l’equinozio primaverile (candelòra, dell’inverno semo fòra ma se piove o tira vento, dell’inverno semo dentro).
La seconda lettura è tratta dalla lettera agli Ebrei; mi colpisce un passaggio:
“…anche Cristo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita”.
Tutto mi richiama ai giorni nostri e penso a quanto potrebbero essere attuali ogni gesto e ogni parola.
A questo proposito attendo il momento nel quale il prete sollecita con vigore: “Scambiatevi un segno di pace!”
Ma niente.
“La pace sia con voi”
“e con il tuo Spirito”
(silenzio)
“Agnello di Dio che togli…”
Eravamo pronti a stringerci la mano e invece il vuoto, un silenzio mortificante.
Ecco forse una parola che fa paura anche al prete: pace.
Quindici anni.
Quindici anni sono tanti.
Fatichiamo a cercare di riempire un vuoto.
Ci proviamo in ogni modo e, nonostante i numerosi tentativi, il vuoto resta.
Forse è proprio questo, ciò che dobbiamo patire, soffrire un vuoto che poi vuoto non è: uno spazio carico di ricordi impalpabili ma vivi.
A mia madre (31 gennaio 2010 – 31 gennaio 2025)