di Dario B. Caruso
C’era un tempo in cui gli effetti del T9 apparivano incredibilmente stupefacenti.
L’idea della correzione automatica associata ad un messaggio o ad un testo qualunque meravigliava i non nativi digitali, compreso il sottoscritto.
Gli approcci con la tecnologia informatica mi sono stati regalati dal bar sotto casa: prima con Pong, il gioco del tennis, poi con Space Invaders.
Erano gli anni Settanta.
Con la monetina da cinquanta lire viaggiavi per qualche minuto in un mondo parallelo, i più bravi arrivavano anche a dodici quindici minuti di gioco.
Poi tornavi alla realtà: si scendeva dall’astronave del futuro e si andava a scuola, di corsa perché era tardi.
Oggi fatichiamo a scendere da quell’astronave.
Conviviamo con due parti di realtà, un piede di qua e un piede di là perché l’una parte non riesce a fare a meno dell’altra.
Il problema è che la linea di separazione – abbassiamo lo sguardo – è sotto di noi e ci minaccia: non muoverti! Ci tocca cavalcare verso altri mondi.
Ma il viaggio sta per finire.
Fra poco, con una velocità smodata, scenderemo da cavallo e grazie a tutte le ultime invenzioni saremo nel mondo di domani.
Guarderemo il T9 come si guarda distrattamente un film muto, qualcosa che tace e non ha più nulla da dire.