“Onestà tedesca ovunque cercherai invano,
c’è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina;
ognuno pensa per sé, è vano, dell’altro diffida,
e i capi dello stato, pure loro, pensano solo per sé”.
Così scriveva Johann Wolfgang Goethe della nostra bella penisola, in anni non (del tutto) sospetti, nel suo “Viaggio in Italia”, pubblicato in due volumi nel 1816 e nel 1817.
Non si tratta certo di un’opera descrittiva (come si fa a descrivere l’Italia?), ma di una raccolta di impressioni e giudizi scaturiti dall’impatto tra Goethe e il suolo italico: luoghi, gente, profumi, usi e costumi intrecciati con erudite riflessioni su arte, cultura e letteratura. Leggendo il libro, come ha detto più di un critico (il Beckenbauer, ad esempio), si capisce più di Goethe che dell’Italia.
Ai tempi di Goethe, non si poteva ancora parlare di turismo. Viaggiare era un’impresa molto pericolosa, i briganti tendevano agguati e le carrozze facilmente si rompevano per il cattivo stato delle strade. Per non parlare dei viaggi in mare: Goethe stesso sfiorò il naufragio al largo di Capri.
Eppure, l’idea di un viaggio on the road (senza biglietto aereo per intenderci) mantiene ancora un certo fascino per chi, nel viaggio, vuole vivere anche il percorso, e non solo arrivare a destinazione. Tra questi neoromantici da torpedone ci sono anch’io. Per una trasferta professionale in Calabria, ho scelto consapevolmente di non prendere treno o aereo, ma di “scendere” (e “risalire”) con il pullman autostradale.
Che cosa è cambiato dai tempi del viaggio goethiano a oggi? Con questa domanda in testa, ho affrontato i 916 km che mi separavano dalla meta con occhi sgranati e mente aperta, pronto a immagazzinare luoghi, gente, profumi, usi e costumi di un Paese che siamo noi italiani a non conoscere per primi.
Che cosa ho visto, dal finestrino dell’autobus, nel mio personale “Viaggio in Italia”? Ho visto la nostra dolorosa Italia, tra le persone sconosciute che hanno viaggiato con me. Ho visto la disperazione senza lacrime di chi non ha speranza di un lavoro, la dignità composta di chi torna “a lu paise” perché “i figli ormai sono di Torino”.
Avvicinandomi al sud, ho visto i cartelli stradali crivellati dai proiettili dei giovani ‘ndranghetari che perfezionano la mira, una palazzina di cinque piani in mezzo a una spiaggia bellissima e auto parcheggiate in ogni modo sopra i marciapiedi. Ho visto la stazione dei Carabinieri con il filo spinato, quasi che in prigione ci fossero loro. Ho visto il bar della stazione e le case costruite un piano alla volta, con i tondini del cemento armato in bella vista sul tetto.
Io, meridionale da parte di padre, ho capito di non aver capito. L’Italia ti spiazza, ti aggira, ti fotte senza che te ne accorgi. E’ impressionante guardarla dal finestrino di un pullman, o in un autogrill alle 4 del mattino. Non c’entra niente con quel Paese patinato che l’omologazione dei media ci propina tutti i giorni a pranzo e a cena. Non c’entra niente con le leggi, la politica, i dibattiti parlamentari, i talk show e compagnia bella.
Se i capi dello Stato, quelli che per Goethe “pensano solo per sé”, volessero davvero capire il Paese che governano, dovrebbero farsi il viaggio che ho fatto io. Allora, solo allora, potrebbero capire.