di Dario B. Caruso
Devo dire con un certo rammarico che la saga di don Camillo e Peppone, così doviziosamente narrata da Guareschi e così magistralmente interpretata da Gino Cervi e Fernandel al cinema, mi risuona lontana.
Fatico a sentirla parte della mia storia, io classe 1964 e quindi figlio del boom, impreparato di fronte al racconto di un’Italia di provincia in fase di ricostruzione post bellica e post fascista.
Non è spocchia, è un dato di fatto.
In ogni caso mi reco a Brescello per un giro con la famiglia.
Entriamo nel piccolo centro, tutto risuona di quelle atmosfere perfettamente mantenute o – in alcuni casi – sapientemente ricostruite.
Tutto ha due sponde uguali e opposte, due idee, due colori.
Perfino la piazza del paese è equamente divisa: da una parte il Caffè Peppone, dall’altra il Caffè don Camillo, dalla una parte la Casa del Popolo e la statua bronzea di Peppone che alza il cappello in segno di ossequio, dalla parte opposta la chiesa parrocchiale e la statua bronzea di don Camillo che alza la mano destra nell’atto di benedire i passanti.
Uno spettacolo di convivenza desueto, ai giorni nostri; oggi abbiamo quartieri che vivono equilibri incerti, luoghi confinanti i cui abitanti si odiano in silenzio, popoli lontani che non si conoscono eppure desiderano annientarsi a vicenda.
In un altro angolo un negozio di merchandising con magliette, stampe, portachiavi, magneti, libri che riprendono le immagini e i racconti dei due nemici/amici.
Dopo esserci guardati intorno e aver goduto di questo tuffo nel passato, giunge l’ora di uno spuntino veloce.
E qui comincia il logorio di una scelta da affrontare: a quale lato della piazza rivolgerci? Siamo un piccolo gruppo ma le sensibilità sono differenti.
Un altro turista passa vicino e ascolta.
“Noi abbiamo fatto così: panino di qua, caffè di là”.
Salomonico e banale ma in qualche modo accogliamo le sue parole. Decidiamo per il panino da don Camillo.
Nel bar tre persone dietro al banco; uno di loro, una signora puntuta, ci dice con parole sue di sederci dove troviamo posto, dentro o fuori, ma di non aspettarsi un servizio veloce che l’attesa sarebbe stata piuttosto lunga.
Ci guardiamo intorno, non si capisce quale sia l’intasamento: tavoli vuoti, alcuni ancora da sparecchiare.
Ringraziamo e ci allontaniamo, togliendola dall’impiccio e dall’eccessivo stress.
Trottiamo verso Peppone.
Questa volta entriamo ma con maggior discrezione.
Pochi tavoli, tutti occupati.
In fondo un gruppo di anziani gioca a tarocchi e parla sottovoce. Si girano e ci guardano, in silenzio.
“Venite, venite!” ci dice una signora piccolina con un accogliente accento locale.
Chiede ad un signore di cambiare tavolo per lasciarlo libero, lui sta leggendo la Gazzetta di Parma ma sorride e accetta di buon grado; poi si unisce a noi, ci chiede da dove veniamo e ci racconta di sé.
Ottimo panino, bicchiere di lambrusco e caffè.
Ce ne andiamo felici tra i saluti di tutti e qualche stretta di mano.
Quando ci chiediamo da che parte stare talvolta ci lasciamo coinvolgere in ragionamenti astrusi legati soprattutto a quella maledetta abitudine del politicamente corretto.
E invece basta solamente lasciarsi andare e farsi guidare dalle cose.