La domanda che non si dovrebbe mai fare a uno scrittore: da dove vengono le tue idee?
Domande che mi stanno arrivando più del solito a proposito di Io sono le voci. Perché poi alla fine pochi credono sul serio alla faccenda dei copycat serial killer. Certo, non sono una “Stirpe” (ed è questa l’ipotesi veramente fantastica del libro uscito Edizioni Anordest), ma il fenomeno esiste, e come, ed è stato ottimamente documentato nel libro americano di Coren Coleman The Copycat Effect, che trovate su Amazon. Ma, prima di Coleman, furono l’amico Pierangelo Garzia, psichiatra, e il sottoscritto che nel 1998 misero mano a un libro che s’intitolava Possessione mediatica, opera nella quale – dicendola in poche parole – si attribuiva ai media un potere invasivo e destabilizzante, avvalorando la tesi che la mente umana, addirittura la stessa personalità, lungi dall’essere un qualcosa di unico e immodificabile, fossero in realtà strutture pericolosamente aperte e malleabili.
“Gli infiniti spazi vuoti che si nascondono nelle pieghe riposte dell’Io”, sostenevamo, “sono quelli che ci mantengono aperti alla comunicazione con gli altri e a possibilità di sviluppo sempre nuove, ma sono anche quelli che possono trasformarsi in pericolosi abissi, dove l’affascinante illusione dei media a volte scatena imprevedibili reazioni”.
Ci avevamo preso? Il dibattito è ancora aperto. E, se Pierangelo ritirò purtroppo la sua firma al libro in fase di scrittura (motivazioni pressanti di lavoro che non gli lasciavano tempo da dedicare ad altro), resta pur vero che proprio nel ’98 gli psichiatri italiani cominciarono a lanciare i primi, non tiepidi, allarmi sulla “dipendenza da Internet”, una vera e propria “intossicazione da Rete” che si manifesta con agitazione psicomotoria, pensieri ossessivi e fantasie, catalogata da tempo in America come Internet Addiction Disorder.
A maggio di quell’anno, dato che a qualche psichiatra convenzionale la nostra teoria sui “film perturbanti” era apparsa fantasiosa (il sesto capitolo di Possessione mediatica), giunse da Milano la notizia che una ventiduenne aveva ingiustamente accusato uno zio di stupro (sedici mesi di prigione si fece il poveraccio), prendendo spunto dal film Rivelazioni, dove Demi Moore accusava perfidamente Michael Douglas d’averla violentata.
“Una videocassetta che la ragazza guardava ogni giorno, fino a immedesimarsi”, scriveva Fabio Poletti su La Stampa. Ma la notizia, a mio parere, ancora oggi più clamorosa era quella che si rifaceva al cosiddetto “stadio dello specchio”. Che, sia chiaro, non era opera nostra, ma derivante dagli studi dello psicanalista francese Jacques Lacan.
Lo stadio dello specchio, descritto da Lacan nel ’74, è una regressione patologica in cui i soggetti proiettano le loro qualità negative in un “Altro Speculare” che assume su di sé, sulla propria “forma”, tutta la negatività rimossa. Non di rado i soggetti avvertono il bruciante desiderio di rompere gli specchi in frammenti minuti allo scopo di sottrarsi alla minaccia dell’Altro, vissuto come persecutore. “Come un mostro dell’inconscio, l’Altro tenta di assorbire il soggetto in un mondo – aldilà dello specchio, o aldilà dello schermo, se si tratta di un medium visivo – da cui non potrebbe più tornare”.
Venerdì 15 maggio 1998, a poca distanza da Alessandria, in Lomellina, la postina Antonella Tempella, 35 anni, dopo mesi di allenamento in un poligono di tiro, uccise in sequenza l’ex marito, il convivente, la madre e una cugina. Poi si ritirò nella sua camera, nella casa materna, e si piazzò davanti a uno specchio.
In quella posizione puntò la pistola alla tempia e lasciò andare il grilletto. Diventa sin troppo banale chiedersi “chi” ha ucciso Antonella in quel modo. Alla luce delle tesi di Lacan, l’Altro persecutore – il vero colpevole degli omicidi secondo molti killer schizoidi – è stato così “eliminato” per avere massacrato, in contrasto con l’Io, i parenti della ragazza.
Esiste un famoso caso di “possessione mediatica”, che in qualche modo prefigura l’evento della Lomellina. A Parigi nell’aprile del ’96, una donna polacca, l’architetto Marguerite Zakrewski, dopo aver visto il film Copycat, uccise marito e figli e s’impicca nello stesso modo in cui, nella finzione filmica, il serial killer tentava di eliminare la bella Sigourney Weaver. Le indagini appurarono che la donna, sofferente da tempo per esaurimento nervoso e sotto cura di forti antidepressivi, ultimamente manifestava disagio di fronte alla propria immagine riflessa e, che dopo la strage, aveva distrutto gli specchi di casa prima del suicidio. Tutti tranne uno: quello che si trovava nella stanza in cui si era consumato l’ultimo atto della tragedia, il suicidio per impiccagione.