Cambiamento di stile

Soro Bruno 2di Bruno Soro

“Già varie volte ho deciso certi problemi di stile prima di testa mia, poi a testa o croce.”

Karl Kraus, Detti e contraddetti, Adelphi, Milano 1972

In un libro di un certo successo, il linguista dell’Università di Berkeley George Lakoff scrive: “Nella metafora della nazione come famiglia quest’ultima corrisponde alla nazione, i bambini ai cittadini adulti e i genitori a un leader politico nazionale.” In quella metafora ognuno può riconoscersi agevolmente, a seconda del leader politico nazionale dal quale si sente rappresentato, nel “bambino-cittadino adulto”, che incarna la figura del “padre severo”, che sa sempre esattamente qual è il “suo” bene (sia quello del padre, ovviamente conservatore, che del “bambino-cittadino adulto”), oppure in quella del “padre premuroso” che “forgia la politica progressista” [G. Lakoff , “Libertà di chi?”, Codice edizioni, Torino 2008, p. 48].

Avendo sperimentato in gioventù la figura del padre severo e non avendo avuto figli sui quali esercitare quella del padre premuroso, non ho dubbi su quale sia la scelta del leader politico nazionale dal quale preferirei essere governato: un padre giovanile che incarni la figura retorica del cambiamento.

Complice un amico che mi ha prestato la sua copia di “Oltre la rottamazione”, il libro nel quale il Sindaco di Firenze sostiene che “cambiare e innovare ha sempre un prezzo. Ma non cambiare, alla fine, costa di più”, ho deciso di documentarmi, consapevole del fatto che dietro il termine “cambiamento” possono celarsi talune insidie. Non sempre, infatti, il cambiamento è verso il meglio, così come può significare una svolta verso destra oppure verso sinistra, condividendo l’opinione espressa da Stefano Rodotà – nell’intervista rilasciata a Simonetta Fiori di Repubblica il 23 luglio scorso -, per il quale “la differenza fra destra e sinistra esiste eccome”.

Di Matteo Renzi non si può non apprezzare, innanzitutto, il cambiamento di stile: egli ha ilRenzi Matteo merito di usare un linguaggio inconsueto per un politico, sia di destra che di sinistra, come quando utilizza parole inusuali come «gentilezza» (in contrapposizione alla scurrilità di un Beppe Grillo) e «moralità» (in antitesi al dilagare della corruzione). O come quando dichiara di preferire il sentimento della «lealtà» a quello della fedeltà, di adorare la sua città e di apprezzare la «leggerezza» di Italo Calvino; di ritenere, infine,  che “la parola «stile» debba avere ancora uno spazio nel vocabolario della politica”.

Il suo partito, sostiene Renzi, “si chiamerà Partito democratico”. E dal momento che “le larghe intese suscitano comprensibilmente varie forme di stupore”, egli si ripropone, alla fine dell’esperienza del governo Letta, di realizzare le seguenti cose: “restituire dignità allo scontro politico”; realizzare quelle riforme “che aspettano da vent’anni”, come l’eliminazione del Senato e l’abolizione delle Province; attuare la “delega sul federalismo fiscale e la semplificazione burocratica e fiscale”, nonché, restituire “credibilità alla classe politica”, battendosi per una nuova legge elettorale (sul tipo di quella per l’elezione dei sindaci) che restituisca ai cittadini la “consapevolezza di chi sono gli eletti”, e che consenta di sapere con esattezza “chi ha vinto e chi ha perso”.

Ricostruendo il percorso che ha portato alla non-vittoria del PD alle ultime elezioni politiche, egli sottolinea poi “tre errori imperdonabili”: quello di avere allontanato “i cittadini dai seggi delle primarie”, specie nel ballottaggio vinto da Bersani; di avere condotto “una campagna elettorale fallimentare”, nel corso della quale “Bersani ha inseguito il comico sbagliato” e, l’errore più imperdonabile, di essersi perso in mille strategie “nella scelta per il Quirinale”. Sempre secondo Renzi, le “caratteristiche fondamentali” che il Partito democratico dovrebbe possedere per poter vincere le elezioni politiche sono: “uscire dalla paura” e suscitare la speranza di “strappare le persone al loro destino”; “essere aperto”, vale a dire, presentarsi “senza scorte, senza lampeggianti, senza lontananza tra le persone e i loro rappresentanti”, e possedere “la capacità di guidare e non solo di seguire”, come un “partito che lavora come una squadra e poi manda il leader a prendere la maglia rosa”.

Gli ultimi due capitoli del libro illustrano il suo programma che consiste, innanzitutto, nel “creare le condizioni per un grande Piano per il lavoro”, articolato “su tre pilastri di base: il fisco, la burocrazia, il credito”. Per quanto riguarda il fisco, dal momento che non si è mai visto in campagna elettorale qualcuno affermare che non bisogna abbassare le tasse, Renzi propone un “fisco semplice”, che dia “certezza alle aziende”, e la garanzia “di non vivere sotto il ricatto permanente delle ispezioni”. Come realizzare tutto ciò? Alla fine di ogni anno, e una volta stabilito il quantum dovuto al fisco, i contribuenti debbono poter pagare “scaricando un’applicazione dal server dell’autorità centrale o con una chiamata al numero verde”. Basta, sottolinea, con la logica del dire “che le tasse sono bellissime”: è un dato di fatto che la pressione fiscale in Italia sia tra le più alte tra i Paesi Occidentali (senza peraltro che vengano corrisposti servizi adeguati ed efficienti). Ragion per cui la sinistra vincerà se riuscirà a declinare “in termini nuovi e contemporanei la parola «uguaglianza»”, assumendosi il compito di “alzare le tasse a chi guadagna molto”, abbassandole “a chi lavora molto e guadagna troppo poco”.

L’intenzione è senz’altro lodevole, anche se le idee sul fisco, mi sembrano avulse dal contesto economico di un paese che possiede un debito pubblico in rapporto al PIL più che doppio rispetto quanto gli impone l’appartenenza all’Eurozona. Guardando poi al mondo del credito, Matteo Renzi mette l’accento sull’annosa questione del rapporto tra “fondazioni bancarie e istituti di credito, tra fondazioni bancarie e istituzioni locali, tra fondazioni bancarie e istituzioni governative”. In altri termini, sul rapporto fra la politica, la finanza e il mondo degli affari. Per quanto attiene, infine, alle scelte strategiche, dopo aver sottolineato che “è ormai arrivato il momento per superare la dicotomia fra industria tradizionale e realtà dei servizi”, egli mette l’accento sulla necessità per l’Italia di “cambiare il modello con cui si relaziona alla cultura”. A tale scopo propone di innalzare la spesa di quest’ultima in linea con quella di altri paesi europei e di abbandonare quella “insormontabile superbia (della sinistra) per cui far intervenire i privati nella cultura costituisce uno sfregio insopportabile”. Inoltre, il settore del turismo andrebbe opportunamente potenziato, quanto al settore della moda, “scommettere sulla moda significa investire sul design, sull’innovazione, sulla creatività, significa “investire sull’Italia”. Sorvolando sull’ambiente, dopo avere stigmatizzato il luogo comune che “per creare posti di lavoro (sia) necessario inventarsi l’ennesima grande opera”, sul welfare egli si schiera a favore dei dipendenti pubblici, sostenendo che non essendo “troppi rispetto alla media europea”, essi non andrebbero licenziati, ma utilizzati “a fare cose utili”.

Oltre la rottamazioneInfine, nel tentativo (a mio avviso non riuscito) “di non cadere nelle trappole del politichese”, nel capitolo dedicato ad “Immaginare il futuro” (laddove “il futuro è passione, è sfida, è curiosità”), Matteo Renzi sottolinea il fatto che “gli italiani pagano per gli interessi sul debito quasi 80 miliardi di euro. Ben più di quanto spendano per l’educazione o per il welfare (circa 60 miliardi di euro in entrambi i settori). In altri termini, si paga di più per le colpe dei padri (debito) che per l’educazione dei figli (scuola) o la cura dei bisognosi (welfare). Sarà una questione di stile, ma la concezione del welfare inteso come “la cura dei bisognosi”, mi sembra ben lontana da quella che ci si potrebbe attendere da uno che aspira a guidare il paese con lo sguardo rivolto a sinistra. Come ci ricorda Stefano Rodotà nell’intervista citata, infatti, il sistema formativo, che include oltre ai servizi per l’infanzia, l’istruzione scolastica, le varie forme di reinserimento sul lavoro e di protezione dalla disoccupazione; il sistema pensionistico e le varie forme di assistenza agli anziani, il diritto all’assistenza sanitaria, la tutela della maternità e dell’inserimento della donna nel mondo del lavoro, non sono assimilabili a forme di “cura dei bisognosi”, bensì alla categoria dei «diritti sociali da tutelare». Ed è un peccato che nell’ottica del «cambiamento di stile» parole come «equità» e «solidarietà», che appartengono a pieno titolo al linguaggio della sinistra vengano estromesse dal suo vocabolario. Matteo Renzi, da grande comunicatore, è indubbiamente in grado, per usare le categorie di Lakoff , di “colmare il deficit di empatia” della sinistra, ma non sono altrettanto sicuro della sua capacità di saper esercitare, diversamente da quanto sta dimostrando Enrico Letta, «l’etica della cura», quel complesso di competenze che consistono nell’esercizio della «protezione» (“che significa sicurezza sociale, controllo delle malattie e sanità pubblica, alimenti sicuri, aiuti in caso di calamità, tutela del produttore e del consumatore, tutela ambientale”) e dell’«ampliamento delle potenzialità» (empowerment), quell’insieme di infrastrutture, reali, sociali e finanziarie il cui scopo è “di massimizzare la libertà di perseguire i nostri obiettivi”: due funzioni strettamente interconnesse che uno stato efficiente deve saper svolgere.

Se il cambiamento di stile che Matteo Renzi ha introdotto nel linguaggio della politica non può non essere apprezzato, da solo ciò non è sufficiente a colmare quel “deficit di fiducia” (per carenza di autorevolezza) che ha fino ad ora impedito ad alcuni suoi potenziali elettori di sostenerlo apertamente, considerandolo, a torto o a ragione, come lui stesso ritiene di essere, “sempre il solito bischero”.