di Danilo Arona
La storia l’ho già raccontata, ma l’ultima volta risale a 17 anni fa. Forse vale la pena riproporla, giusto per una fresca risata estiva in queste torride giornate di caldo africano.
Allora, come qualcuno sa (sempre di meno, ma non per niente la rubrica si chiama Il Superstite…), c’è stato un periodo della mia vita in cui facevo il Ghostbuster. Beh, che c’è di strano? Qui attorno è pieno di castelli, fantasmi e case diroccate. Da Villa Pastore al castello di Piovera, passando per cento altri siti, c’è da scegliere.
In ogni caso credo che fosse il 1970 o giù di lì. Di sicuro era autunno inoltrato. Di sicuro le tenebre avevano già guadagnato terreno e il commando di Fiat 500 (4 auto, 2 bianche e 2 blu), partito da Alessandria, andava dirigendosi in zona operativa, leggi Ponti, nel circondario di Acqui Terme, da qualcuno definito ai tempi “paese delle streghe” ma ben più famoso per il suo mitico “polentone” lavorato in pentole gigantesche in puro stile “Palo Mayombe”. Dopo abbondanti tre quarti d’ora, colpa della scarsa velocità, i cacciatori di spettri raggiunsero il bersaglio e posteggiarono le utilitarie nello spiazzo antistante un cadente castello quanto mai in rovina.
Tra i ragazzi della notte primeggiava per prestanza fisica e per lunga esperienza di tecniche paramilitari un tipo che di mestiere faceva il pompiere e che si era già guadagnato una fama piuttosto sinistra per essersi gettato, durante un’esercitazione, verso un telone di salvataggio, sbagliandolo di un paio di metri. Fu costui, che di tanto in tanto perdeva la memoria causa la tremenda capocciata inferta al manto stradale, che assunse il comando delle operazioni. E fu sempre costui che, una volta verificata l’impossibilità di entrare nel perimetro dell’antica costruzione per vie normali in quanto queste ultime risultavano cancellate dalla incuria del tempo, decise che il gruppo avrebbe dovuto scalare una ripida parete terrosa per guadagnare quelli che un tempo erano probabilmente gli spalti.
I giovani ghostbuster non erano proprio avvezzi a frequentare palestre. Allora chi ci andava passava per sfigato, in più di un caso di estrema destra. La palestra e lo sport in genere apparivano come corollari quotidiani ed evitabili del motto “Dio, patria e famiglia”. Come sappiamo, i tempi cambiano di brutto…
Insomma, i ragazzi non la digerirono affatto la proposta di diventare degli scalatori notturni, ma il gusto della conoscenza e il brivido dell’imprevisto ebbero la meglio sul loro indugiare.
Così, mentre si avvicinava la classica ora che tutti temono — mezzanotte che è sempre la fine e l’inizio di qualcosa che non si comprende fino in fondo – , una dozzina di patetici disperati con i capelli lunghi, i pantaloni a zampa d’elefante e le scarpe Wolkswagen iniziò ad arrancare lungo quella via alquanto aspra, sbuffando e imprecando.
La scalata fu impervia. Ogni tanto il commando doveva fermarsi per far riprendere fiato ai suoi membri. Quando il pompiere urlò nel buio all’improvviso: «Chi sono? Cosa cazzo ci faccio qui?», lo smarrimento regnò sovrano per parecchi secondi. Fortuna voleva che quelle crisi mnemoniche risultassero sempre di breve durata.
Dopo un’eternità, all’una meno venti, i tipi giunsero in cima alla vetta. Quando tutti furono più o meno piazzati sulla sporgenza di un traballante cornicione, i cacciadiavoli si resero conto all’unisono che si trovavano sull’orlo di un precipizio più nero della notte che li circondava. Quell’oscurità primordiale di cui non distinguevano il fondo a loro parve il cortile interno del vecchio castello. E quando il Sommo Teorico in perenne contatto con le entità ultraterrene (c’è sempre un sommo teorico in un gruppo motivato — negli anni si è trasformato nell’archetipo del Grande Vecchio…) sbottò con: «Qua sotto è il cuore marcio del problema! Sento le vibrazioni dell’Homigon!», i ragazzi avvertirono i primi sintomi della cagarella. Il pompiere però riequilibrò da par suo la situazione.
«Chemminchia dici?»
«L’Homigon è lo spirito del luogo.»
«Non dite cagate. È un nome marziano.»
«Ah.»
Il brevissimo e surreale dialogo bloccò gli spasmi, ma non la curiosità. E fu a proprio a quel punto che il pompiere, dopo avere appena decretato che Homigon era un epiteto alieno (forse si confondeva con Omicron di Ugo Gregoretti), decise di misurare con metodo artigianale la distanza che intercorreva tra gli arditi e il fondo dell’abisso. Così afferrò un grande sasso lì vicino e pronunciò con tono grave: «Vediamo quant’è profondo». Poi lasciò andare la pietra nel nero budello.
Dopo sette, otto secondi gli rispose un secco rumore di vetro fracassato. I ragazzi, per quel pochissimo che permetteva il buio, si guardarono negli occhi e da quell’istante s’innescò un crescendo orgiastico e feroce degno di un film che s’intitola Il signore delle mosche e magari in passato avete virto. Tutti s’impossessarono di pietre e sassi che lì attorno non scarseggiavano e ognuno colpì con ferocia non più repressa l’Homigon che giaceva laggiù in fondo, nel buio ventre dell’antico castello: disumana ferocia e gratificante sadismo che crescevano ogni volta che alle loro orecchie giungeva la risposta dolorante di metalli sforacchiati e vetri frantumati.
Quindi, terminate le munizioni e accertata l’impossibilità di andare da qualsiasi altra parte che non fosse la via del ritorno, i giovani ghostbuster ripercorsero la parete di terriccio, giungendo sulla terra in una decina di minuti.
Aggirarono di nuovo le scheletriche mura perimetrali e, quando giunsero allo spiazzo in cui avevano posteggiato le Fiat 500, i loro cuori ebbero un sobbalzo ai limiti del coccolone. Gli occhi si sgranarono. Le bocche si aprirono in una muta esclamazione di tragica sorpresa.
Le loro gagliarde Cinque Chiappe stavano lì semidistrutte, con carrozzeria e parabrezza irrimediabilmente rovinati, dalla pioggia insensata di pietre e massi che gli stessi cacciatori di spettri avevano lanciato dagli spalti del castello nell’errata convinzione di colpire l’abisso e stimolare le vibrazioni dell’Homigon.
Il pompiere urlò: «Chi cazzo è stato? Io lo ammazzo!», e subito dopo perse la memoria per alcuni giorni. Qualcun altro ammutolì e decise su due piedi di abbandonare per sempre la metapsichica. I più sfigati si misero a piangere.
Poco tempo dopo all’Università di Genova diedi un esame su Nietzsche. Io, che avevo fatto parte di quel commando, incappai nella celeberrima massima Se voi scrutate dentro l’Abisso, anche l’Abisso scruta dentro di voi. Non esiste frase più vera e l’umanità lo sa da sempre. Ma, se non ricordo male, Nietzsche diceva pure che la demenza è rara nei singoli ma è la regola dei gruppi.
Oppure fu colpa dell’Homigon?