di Dario B. Caruso
Per un musicista parlare di danza può essere naturale.
Ancor più per un musicista con un passato – ahimè lontano – da ballerino di discreto livello.
I giri di valzer, i passi di tango figurato, i sollevamenti di jive e gli strofinamenti di rumba hanno senso solamente se ci sono alcune condizioni.
L’orchestra
I musicisti devono essere preparati (anni e anni di studio), devono conoscere la tecnica strumentale, avere un ottimo affiatamento tra loro (ore e ore di lavoro e di prove), devono avere rispetto del lavoro, proprio e altrui.
Il repertorio
I brani eseguiti devono essere facilmente riconoscibili, belli esteticamente e di sostanza, magari dei classici che abbiano una storia e richiamino alla mente le terre che raccontano (Vienna, Buenos Aires, Parigi, Cuba,…).
I ballerini
I danzatori devono volteggiare serenamente, devono mettere in evidenza la fatica e lo studio prodotto nel tempo ma anche la gioia e la leggerezza nel rappresentare di fronte al pubblico.
Il pubblico
Lo spettatore è l’unica componente che subisce, non ha facoltà di entrare nel merito se non applaudendo o meno e comunque a posteriori, criticando lo spettacolo secondo proprie competenze e convinzioni. Lo può fare solamente dopo aver visto e ascoltato ciò che si è potuto vedere e ascoltare.
In questi giorni in Italia si ripete la periodica manfrina per le nuove nomine in alcuni posti chiave del potere mediatico, culturale e politico.
Volteggiano nomi su spartiti musicali rispolverati ed eseguiti da musicisti che non conosciamo.
Noi spettatori assistiamo silenti al rumore assordante di ritmi tribali.