di Dario B. Caruso
L’esposizione della mostra Rubens a Genova a Palazzo Ducale resterà aperta fino al 22 gennaio del nuovo anno.
È suggestiva, ricca di contenuti e molto complessa.
In primo piano si trovano ovviamente alcune tra le sue opere e numerose opere della sua bottega e di altri artisti suoi contemporanei, fiamminghi e genovesi.
La vera chiave di lettura, palesemente dichiarata nel titolo della mostra e brillantemente realizzata dai curatori, è il rapporto tra lui e la città ligure.
Proprio quattro secoli fa Rubens, ritornato in patria ad Anversa dopo una lunga esperienza in Italia e soprattutto tra Genova e Mantova, realizza a proprie spese una pubblicazione intitolata Palazzi di Genova nella quale sono rappresentate le facciate di 40 storici edifici, patrimonio delle famiglie nobiliari locali.
Nelle prima sala della mostra risuona la parola intrinsechezza, parola presente nel vocabolario italiano ma desueta rispetto al lessico colloquiale moderno.
L’intrinsechezza rappresenta un profondo grado di familiarità con la gente, è un’intimità che travalica la semplice conoscenza, si avvale di rispetto e fiducia nell’altro ed è reciproca.
Questo termine ha condizionato l’intera mia visione della mostra, obiettivo evidentemente voluto e raggiunto dai curatori.
Per prima cosa sono rimasto affascinato da come un artista, un grande artista, sia riuscito ad entrare in sintonia con una città lontana dalla propria terra natale.
In seconda battuta ho sentito questi quattrocento anni lontani migliaia di anni luce: quanto è difficile oggi ritrovare nella società che ci circonda un senso di intrinsechezza?
Nel 1626 Pietro Paolo Rubens pubblicherà un secondo libro con altri palazzi e chiese del capoluogo ligure.
Un’intrinsechezza che perseverava nel tempo.