Il futuro del governo Letta è condizionato dalla scelta che farà Berlusconi, tra qualche giorno o settimana: se ” accetta ” la sentenza (sia pure continuando a professarsi innocente) e si dimette da senatore, il governo potrà proseguire nel suo cammino per realizzare – se ne sarà capace – le riforme necessarie per uscire dalla recessione e trasformare il nostro sistema politico costituzionale in un sistema di tipo europeo.
Se invece rifiuterà la sentenza “in sè”, come atto politico di giudici non terzi, ma impegnati in una lotta senza quartiere per “farlo fuori”, allora sottoporrà la questione della sua decadenza al voto dell’Assemblea del Senato. In questo secondo caso, è decisamente improbabile che il governo Letta sopravviva.
Il perché è presto detto: persino al di là delle intenzioni dei singoli attori, è difficile immaginare che, al mattino, i senatori del Pdl e quelli del Partito Democratico e di Scelta Civica si riuniscano per decidere su Berlusconi ed esprimano scelte opposte: i primi per respingere la decadenza, i secondi per determinarla; salvo poi riunirsi, nel pomeriggio, con tutti i ministri, per decidere di comune accordo sull’IMU, sulla legge di stabilità, o su quella di bilancio … No, per quanti sforzi faccia, questa scena mi sembra decisamente irrealistica.
Se infatti prevalessero – come è pressoché certo – i fautori della decadenza (che, detto per inciso, hanno ragione da vendere: la incandidabilità fissata dalla legge Severino non è una sanzione penale, quindi l’irretroattività della norma penale non c’entra nulla), sarebbero i ministri e i parlamentari del Pdl a trovarsi in una situazione politicamente insostenibile. Ma se prevalessero i sostenitori del no alla decadenza, gli effetti di quel voto sul governo – cambiato quel che c’è da cambiare – sarebbero comunque esiziali: come potrebbero Pd e SC continuare a governare con un partito che grida al “golpe giudiziario” ed afferma – con la forza dei numeri in Parlamento – la supremazia del “consenso popolare” sulla legge?
Quindi, a Berlusconi la scelta: o affermare, sia pure nel momento di disgrazia, il proprio profilo di statista, promuovendo il ricambio della leadership del Pdl e mantenendo l’appoggio al governo – così mostrando di aver appreso l’insistita lezione di Napolitano sulla necessità che i partiti ritaglino il proprio interesse non in contrasto, ma in piena coerenza con l’interesse nazionale. Oppure scegliere l’avventura dello scontro politico istituzionale senza quartiere, magari utilizzando pro domo sua la sconcertante prova di leggerezza- o faziosità? – fornita dal presidente Esposito con l’intervista al Mattino in cui spiega le motivazioni della sentenza prima di averle scritte e depositate.
E il Pd? Se il direttore sarà d’accordo, ne parlerò in un altro articolo. Qui mi basterà dire che il Pd, se vuole smetterla di fare piaceri – per quanto involontari – a Berlusconi, deve fare due scelte precise: la prima, consiste in una scelta netta di conferma del proprio sostegno al governo Letta. Naturalmente, aiutandolo a fare, oltre che a durare.
La seconda: celebrare il proprio congresso nella data fissata, il 24 novembre.
Un Pd incerto e senza guida – in mancanza del congresso, aldilà della buona volontà di Epifani e della sua giovane segreteria, il Pd è un partito incerto e senza guida – non giova né al paese, né a se stesso. Al paese, perché non è pronto a reagire alla scelta di Berlusconi, quale che essa sia, tra le due indicate. A se stesso, perché il 24-25 febbraio dovrebbe aver insegnato a tutti i dirigenti del PD che di pasti gratis – cioè vittorie senza precisi impegni per
il governo del paese – non ce ne sono più.