Pena di morte: ad Alessandria l’ultima esecuzione nel 1871 [Lisòndria tra Tani e Burmia]

di Piero Archenti

 

La pena di morte in Italia venne abolita nel 1948, ma già nel 1786 il Granducato di Toscana non permise la pratica né della tortura, né della pena capitale, seguito nel 1849 dalla Repubblica Romana e nel 1865 da San Marino.
Va precisato che già nel 1889 il Regno d’Italia approvò il nuovo Codice penale senza la pena di morte, ma ci pensò Mussolini nel 1926 a reintrodurla.
L’ultima fucilazione designata dalla pena di morte avvenne il 4 marzo 1947 alle Basse di Stura presso Torino e vennero giustiziati tre uomini che avevano compiuto una strage per rapina.
  Purtroppo l’abolizione era ben lungi dall’essere totale, come scrive Claudio Giusti nella sua breve storia della pena di morte in Italia. Infatti, Il patibolo era previsto nelle colonie, in guerra e durante lo “stato d’assedio” (come quando, nel 1898, il generale Bava Beccaris prese a cannonate gli operai in sciopero). In ogni caso il nostro paese fece per mezzo secolo parte dello sparuto drappello dei paesi che già allora erano abolizionisti. Il Codice Zanardelli entrò in vigore il 1° gennaio 1890 e lo rimase per i successivi quarant’anni.
Fu il fascismo a fare tornare il boia nel nostro paese. Le “leggi definite fascistissime” del 9 novembre 1926 punivano con la morte gli attentati al Re e al Duce. Poi, con il Codice Rocco del 1931, la pena di morte fu allargata agli omicidi comuni. Comunque è doveroso rammentare che i fascisti furono costretti a realizzare il loro Tribunale Speciale, visto che la Magistratura non era disponibile ad aderire ai loro desideri, come invece lo fu quella tedesca nei confronti del regime nazista.
La pena capitale (somministrata dal plotone d’esecuzione) andò avanti per una ventina d’anni. Fu utilizzata con parsimonia se paragonata a quanto accadeva in Germania e in Unione Sovietica, ma in aggiunta alle uccisioni “legali” occorre ricordare gli assassini e i crimini di guerra commessi sia prima che durante la Seconda Guerra Mondiale.
Come già anticipato all’inizio da Giusti, le ultime esecuzioni si tennero nella primavera del 4 marzo 1947 quando furono fucilati tre criminali comuni noti come “Quelli di Villarbasse”. L’ultima esecuzione invece, fu eseguita il giorno seguente, 5 marzo 1947, alle 5 del mattino presso Forte Bastia, alle porte della Spezia. I condannati furono Aurelio Gallo, di Udine, capo di un sedicente “servizio investigativo autonomo” presso il comando provinciale della Spezia della  Guardia Nazionale Repubblicana Nazionale, l’ex capitano della G.N.R. e questore ausiliario della Spezia, Emilio Battisti, di Trento, e l’ex maresciallo della G.N.R. Aldo Morelli, tutti già condannati a morte nel maggio 1946, dalla Corte di Assise locale, per collaborazionismo, sevizie e responsabilità nella deportazione nei campi di sterminio di migliaia di persone. L’esecuzione fu sofferta, poiché il plotone dovette far fuoco una seconda volta in quanto la prima scarica uccise solo il maresciallo Morelli, mentre l’ex questore restò ferito a terra e Gallo illeso. Dopo la prima scarica Gallo disse, rivolto al plotone: «Non dovreste più sparare, ma fate come credete».
In conclusione, Italia e Germania abolirono la pena di morte subito dopo la fine della guerra, mentre il Giappone ancora non l’ha fatto.
L’orrido campo
  In Italia la pena di morte fu soppressa nel 1888; da allora la macabra scena della preparazione del condannato e del supplizio, rimangono come triste ricordo del tempo passato. In Alessandria l’ultima sentenza di morte venne pronunciata il 2 giugno 1870 ed eseguita il mattino del 31 gennaio 1871: si tratta di Vertua Vittorio che la sera del 25 febbraio 1868 uccideva due persone per rubare due lire soltanto!
Il nome di Vertua restò poi a lungo nella memoria degli alessandrini, sia come feroce delinquente, sia come l’ultimo nostro giustiziato. Scomparsa la pena di morte scomparve anche l’antica Confraternita di S. Giovanni Decollato che aveva il compito di assistere sino all’ultimo i condannati. Di essa e della sua Chiesa al fondo di via Vochieri, pure scomparsa, diremo separatamente.
La pena di morte era diversamente applicata a seconda del delitto compiuto. Di regola la impiccagione era per i reati comuni; la fucilazione, di fronte oppure alla schiena, valeva per i reati politici e per i militari; solo durante la dominazione francese fu introdotta da noi la ghigliottina. Gli apparecchi di morte, travi della forca, panchetto, tiranti e corde erano conservati in un cortile, tutt’ora esistente, situato in via Parma tra le Carceri e l’ex filanda Ceriana.
  Il popolo usava indicare quel triste luogo col titolo di cortile della Misericordia. Il campo della morte dove si drizzava la forca era scelto di preferenza nei prati dietro l’attuale Penitenziario, al di qua dei vecchi bastioni, nei pressi della strada nuova, che porta al Cimitero. Il luogo variava di volta in volta; dietro il penitenziario venne giustiziato il Vertua di cui sopra si è detto; ma risulta che altre esecuzioni avvennero di fronte alle cosidette “Poterne” tutt’ora esistenti, e altre ancora presso il salto del canale Carlo Alberto, salto che i nostri vecchi ricordano ancora col nome di “Mezzaluna”.
 Le fucilazioni di solito erano eseguite in piazza d’Armi (vecchia), lungo il lato opposto all’Arco Trionfale: quivi appunto cadde da eroe Andrea Vochieri. Quando si trattava di militare la esecuzione era preceduta dalla degradazione ed il condannato era collocato in piedi di fronte al plotone, con gli occhi bendati. Il rullio dei tamburi si confondeva con il crepitio delle armi.
Nel periodo francese, come si è detto, si era stabilito che “tout condamnè à mort aurà le tete trancheèe”. Non di rado la pena capitale era aggravata dalla “esemplarità”, specie di berlina, che variava in rapporto al delitto commesso. La ghigliottina veniva di preferenza eretta sulla “place d’Armes”,ora della Libertà, in quanto serviva come esemplarità e per il condannato e soprattutto per la popolazione.
Nei casi di impiccagione il boia era accompagnato da un aiutante che il popolo chiamava “tirapiedi”; l’uno e l’altro dapprima traevano profitto dalla vendita della corda di esecuzione, fintanto che la citata Confraternita, non provvide alla conservazione del triste cappio nel proprio Museo.
 Piero Angiolini 15-10-1955