di Dario B. Caruso
Tra le parole che hanno preso campo in questi ultimi quindici mesi di storia dell’umanità c’è la parola ripartenza.
Di per sé ripartenza è un termine dinamico, mi fermo al semaforo rosso e al verde riparto, arrivo a casa per pranzo ma subito dopo riparto, settembre: si riparte con la scuola e così via.
“Partire vuol dire morire
Lasciare gli occhi belli di Maria
E il prato verde accanto a casa mia” cantava un celeberrimo brano del da poco scomparso Raul Casadei, re del liscio.
Ma se partire vuol dire morire cosa vuol dire ripartire?
Forse rimorire?
Che sofferenza!
E allora penso che non si debba ripartire, piuttosto ricominciare.
Ricominciare è certamente faticoso, si tratta di costruire dal principio riprogettando le fondamenta.
Però ha senso poiché noi non siamo più quelli di prima.
Non potremo semplicemente sfilare il segnalibro e continuare il romanzo riprendendo dalla pagina lasciata; urge rileggere dalla prima pagina, con occhi nuovi.
In queste settimane ho ripreso l’attività di musica dal vivo, prove, contatti, concerti, incontrare gente, rivedere studenti e gruppi di lavoro.
L’ho fatto con gioia ma con altrettanta ansia, l’ansia di un bambino che non sa di essere ancora capace di saper pedalare in bicicletta.
Allora anziché ripartire da dove ho lasciato, ricomincio cercando di studiare bene.
Ricomincerò da tre.
Da zero, direte voi.
Vi rispondo con il grande Massimo Troisi: volete dire che almeno tre cose nella vita non mi siano riuscite?
Lasciatemi credere che sia così.