a cura di Angelo Marenzana
Questa domenica ALlibri propone un libro che ripercorre la storia del delitto di via Poma 30 anni dopo, scritto dal giornalista Igor Patruno (e pubblicato da Armando Editore) che ha seguito passo dopo passo ‘omicidio di Simonetta Cesaroni avvento il 7 agosto del 1990. E proprio il 5 novembre, la vittima avrebbe compiuto gli anni, e in occasione di questa data abbiamo deciso di dedicare la nostra attenzione a un libro che racconta di un cosiddetto cold case, un crimine irrisolto.
L’autore, Igor Patruno, fin dalla cronaca del 1990 ad oggi non ha smesso di fare le pulci ad una indagine che secondo lui e molti altri sarebbe stata condotta in modo trasandato, tra errori macroscopici e sviste a dir poco ingenue. In trenta anni lo scrittore ha continuato a cercare con scrupolo certosino, a scandagliare prove e atti giudiziari, sentire testimonianze e rivedere filmati. Lo ha fatto e lo fa perché sia fatta luce sulla morte “di una ragazza come tante, normale e perbene, che ha finito di vivere in una palazzina della Roma perbenista”. Igor Patruno continua a ripetere che non accetta l’idea che non ci sia un responsabile di un delitto tanto efferato la cui vittima è stata l’unica a pagare, anche in termini mediatici, perché l’immaginario collettivo concentrò quasi solo su di lei – non tanto sull’assassino – le attenzioni morbose riguardo questa torbida storia.
Il delitto di via Poma è, forse, il cold case italiano del dopoguerra più noto e più popolare. Avvalendosi della lettura delle carte giudiziarie, l’Autore indaga il dettaglio introspettivo dei personaggi, mette in evidenza fatti e circostanze nel contraddittorio accavallarsi delle dichiarazioni rese dai testimoni, nelle risultanze delle lunghe inchieste, altrettanto contraddittorie. Il racconto, coinvolgente ed emotivamente toccante, si snoda dalle ultime settimane di vita di Simonetta fino ai fallimentari esiti giudiziari, passando per la ricostruzione del delitto.
In lettura, ve ne proponiamo un estratto.
Agosto 1990. Esterno giorno. Sul piazzale davanti la basilica di San Giovanni Bosco, uno slargo parzialmente sterrato, si affacciano costruzioni razionali, con porticato a colonne squadrate. È identico a com’era nel 1960, quando Fellini volle girarci la scena de La dolce vita con Marcello seduto e Paparazzo a fotografare una svampita qualsiasi sotto i portici. La basilica, a sezione quadra, è sormontata da due cupole, quella più prossima al piazzale ha un aspetto imponente. Entrambe gravano sul tempio, come coperchi poggiati sui misteri della vita e della morte. Michael e Gabriel, vegliano sull’ingresso; gli angeli più potenti, emanazioni del dio unico, hanno volti sereni, ma immobili nel marmo.
Sul sagrato, un uomo e una donna si tengono per mano.
Lui indossa pantaloni a righe grigi e una camicia bianca, sbottonata sul petto, lei è interamente vestita di nero, lo sguardo basso, perso chissà su cosa.
Lui è il marito, vorrebbe piangere, ma deve essere forte, lei è la moglie, gli occhi arrossati di pianto.
Poco distante una giovane donna vestita con scarpe da ginnastica, pantacalze di cotone blu e maglietta a righe blu e bianche. Abiti identici a quelli indossati dalla sorella nel pomeriggio di due giorni prima. Si chiama Paola. Attorno tanti ragazzi.
È un funerale. Il funerale di Simonetta Cesaroni.
Oltre i confini della piazza si allarga, immensa, la periferia di Roma; una prateria di strade, abitazioni basse, palazzine a schiera, capannoni, scheletri di fabbriche dismesse, pratoni immensi. Tra odori di catrame ed erba secca, tra sapori di terra e fioriture tardive, si intravedono, appena celati dalla vegetazione, gusci d’auto, carcasse abbandonate di elettrodomestici; cartacce, mozziconi di sigarette, cocci aguzzi di bottiglia, frammenti di plastica e cianfrusaglie varie, stanno ammucchiate tra l’asfalto e il bordo dei marciapiedi. Ragazzini giocano, rincorrendosi per le vie, o nei cortili, mentre qualche motorino sfreccia lungo la Palmiro Togliatti e scende verso via Casilina. Le automobili corrono sull’asfalto, lungo le strade deserte dell’estate.
È una giornata strana. Cieli attraversati da nubi. Caldo e umidità. Il carro dei becchini è fermo nel piazzale antistante la chiesa.
All’obitorio, prima di chiudere la cassa, Paola ha tagliato una ciocca di capelli della sorella morta e l’ha riposta in una busta. Qualcosa di lei resterà fuori, insepolto.
Mentre il sole arde la terra, la gente calpesta rade chiazze d’erba e osserva la bara bianca muoversi lentamente verso l’oscurità del tempio. Qualcuno, fermo tra due palme irreali, stringe le palpebre nella luce diffusa del mattino.
Sono lunghi i giorni d’estate: si alzano sui campi d’erba bruciata e di sterpi, violano le zone d’ombra e poi calano lenti, riscaldando i colori sbiaditi dei palazzi.
Ora il feretro è di fronte l’altare. Contiene il corpo devastato della ragazza di periferia andata a morire nel quartiere dei ricchi.
Per arrivare fin là ha attraversato il sottosuolo della città all’interno di un vagone della metro. Seduta da qualche parte, con in grembo la borsetta e l’ombrellino, avrà certamente volto lo sguardo, almeno una volta, oltre i finestrini, verso l’oscurità delle gallerie, appena rischiarata dalla luce artificiale del convoglio. Quando il treno risale verso l’alto e attraversa il Tevere sul ponte Pietro Nenni, il bagliore del giorno invade l’interno delle carrozze, ed è quasi impossibile non guardare fuori. Per chi deve scendere a Lepanto, quello è il segnale di prepararsi.
Roma è immensa, ma non c’è solo distanza geografica tra Don Bosco e Prati. Da una parte schiere di palazzoni popolari, viali disadorni di alberi, piazze lasciate incomplete, come se chi avesse dovuto terminarle fosse fuggito, o scomparso; dall’altra palazzine d’epoca ben disegnate dagli architetti del regime, cortili inaccessibili fitti di alberi, piazze decorate da fontane e statue e angoli di pini altissimi.
La basilica di Don Bosco non riesce a contenere tutti i convenuti e tante sigarette si accendono sui gradini del tempio, sotto il sole. Cronisti impietosi snocciolano raffiche di domande, mentre l’occhio vigile delle macchine fotografiche, delle cineprese, cristallizza volti sui fotogrammi delle pellicole.
“Alla fine dei tempi”, dice don Manfredo nell’omelia, “questo corpo martoriato sarà resuscitato e i suoi occhi trafitti torneranno a vedere la luce”.
“La città è abbandonata a sé stessa”, tuona poi il parroco. “Uomini spietati e senza timore di Dio la percorrono seminando atrocità”.
Non fa nomi don Manfredo, ma la violenza a Roma si respira densa. Non fa nomi, ma pensa a quelli della banda della Magliana che ancora s’ammazzano per le strade, per contendersi e contendere ai nuovi venuti, il potere del crimine, delle attività illecite.
“Un corpo sfigurato in una città sfigurata”, continua don Manfredo, ricordando Simonetta Cesaroni. “Signore, se chi l’ha uccisa e ha calpestato il suo sangue è qui tra noi, preghiamo affinché si penta e si faccia avanti per riconoscere la sua colpa”.
Ma nessuno si fa avanti, nessuno si pente.
È morta una ragazza, uccisa barbaramente, e dopo trenta anni siamo ancora a chiederci perché. Dunque l’assassino, ammesso non sia deceduto nel frattempo, si aggira libero e la famiglia non ha ottenuto giustizia.
Partecipo spesso, per il mio lavoro di giornalista e scrittore, ad incontri pubblici, presentazioni, convegni, seminari. Qualcuno si avvicina sempre per chiedermi del delitto di via Poma, anche quando l’argomento è tutt’altro. Accade perché nel 2010 ho pubblicato un libro, La ragazza con l’ombrellino rosa, un romanzo inchiesta sulla morte di Simonetta Cesaroni, ma soprattutto accade perché il fatto di cronaca è entrato nell’immaginario collettivo.
“Cosa te ne fai della giustizia”, mi ha quasi gridato una signora sconosciuta proprio parlando del delitto di via Poma. “Quando ti portano via una figlia in quel modo sei finito anche tu”.
“Ha ragione”, le ho risposto, incapace di argomentare di fronte al tono definitivo dell’affermazione. Tornando a casa, ho pensato a Claudio Cesaroni, il papà della ragazza uccisa in via Poma. Ho immaginato cosa deve aver provato la mattina del 13 agosto, quando, recandosi in via Poma accompagnato dall’agente Angelini, con l’intento di salire al terzo piano ed entrare nell’appartamento dove ancora c’era ovunque il sangue della figlia, incontra nell’androne Francesco Caracciolo di Sarno. Il presidente del comitato regionale degli ostelli è con la segretaria. Entrambi portano voluminosi incartamenti. È il primo incontro. Giuseppa De Luca informa l’avvocato. Caracciolo carica la sua assistente di tutta la roba, apre la porta dell’ascensore. Salgono. “Mi sentivo a disagio dentro l’ascensore, stranamente, non lo so quali fossero i motivi, non lo so”, racconterà anni dopo il papà di Simonetta. Claudio entra per ultimo nell’appartamento. Nella toppa della serratura sono rimaste infilate le chiavi. Resta colpito da un particolare: la chiave ha lo stesso marchio della serratura, una Mottura. La sfila. Mentre la osserva, sopraggiunge Caracciolo, gliela strappa dalle mani. Richiude la porta sbattendola. La tensione sale. Girano per le stanze. Ma ormai si è spezzato qualcosa. Cesaroni non osserva quasi nulla. Il comportamento di Caracciolo l’ha innervosito.
Il papà di Simonetta, insieme all’avvocato Lucio Molinaro, è andato cercando giustizia fino al 20 agosto 2005, quando una pancreatite l’ha portato via. A chi gli chiedeva cosa avesse capito dell’omicidio rispondeva sempre allo stesso modo: “Il nome dell’assassino è nelle carte dei magistrati e va cercato tra i frequentatori di quel maledetto palazzo”.
Di donne giovani o più avanti negli anni, belle o meno belle, mogli o separate, compagne o fidanzate, madri o single, ne vengono uccise tante in Italia. Il dato statistico, benché fotografi una situazione costantemente in crescita, è fuorviante. Ogni morte cela un dramma a sé stante. Ogni femminicidio è la conseguenza, ultima e letale, di un fenomeno assai più diffuso: la violenza di genere. Un fenomeno di dimensioni indefinite perché consumato nell’ambito di rapporti e relazioni sostanzialmente chiuse, intime. Sì, perché la violenza di genere abita l’intimità delle coppie, degli amanti, e si manifesta attraverso una molteplicità di forme. Il racconto pubblico della violenza subita, o la denuncia, è solo la punta dell’iceberg. La massa più consistente resta velata da una apparente normalità. Accade per paura, per vergogna, per quieto vivere, per l’incapacità di cogliere nel modo di agire del partner il sintomo di una malattia spesso inguaribile, dalle conseguenze nefaste.
La violenza di genere, quantunque ogni vicenda abbia caratteristiche sue proprie, legate alla storia individuale dei soggetti coinvolti, ha caratteristiche comuni: nasce da una gelosia insensata; nasce dall’incapacità di elaborare intimamente la fine della relazione, o l’abbandono, e dunque dal sentirsi respinto, allontanato, rifiutato. C’è alla base di tali comportamenti una aberrazione culturale, ovvero la convinzione, assurda, addirittura parossistica, di poter vantare nei confronti della femmina scelta una sorta di diritto al possesso assoluto ed esclusivo, c’è l’incapacità di accettare la libertà di scelta. Al magma culturale del dominio maschile sulla femmina, ribollente di convinzioni ataviche e luoghi comuni, di ignoranza e arroganza, di sollecitazioni parossistiche, amplificate in tutti i meandri della socialità, appartengono anche i predatori dormienti. Soggetti intrappolati nella banalità del male, nella normalità letargica del quotidiano vivere, in grado di scorrere nel fiume dei giorni senza sussulti, persi in un’esistenza rutinaria. Alcuni di loro, ce ne sono in giro più di quanti si immagini, covano avversione per il genere femminile, considerandolo un simbolo da colpire, altri sono inabili a pensare, a concepire, il punto di vista altrui e percepiscono solo sé stessi. Spesso restano dormienti per molto tempo, oppure manifestano, o meglio sarebbe dire entrano in contatto, con le profondità dell’odio e della violenza in aree di compensazione ben separate dalla loro quotidianità. Quando la pulsione li travolge sono capaci di reazioni devastanti e inattese.
Entrambe le tipologie, ovvero il maschio violento e il predatore dormiente, hanno attraversato la storia giudiziaria del delitto di via Poma.
In mancanza di meglio, per dimostrare la presunta personalità violenta di Raniero Busco, fidanzato della vittima all’epoca del delitto, sono state riesumate modeste liti famigliari, litigate con i vicini nel corso delle quali erano volate al massimo parole grosse e qualche spintone. Fortunatamente per Busco i giudici del processo di secondo grado hanno riconosciuto l’irrilevanza della prova.
Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile di via Poma, primo ed anche unico indiziato a finire in carcere, accusato di aver perso la testa per la ragazza intravista dalla guardiola, si sarebbe macchiato del tremendo crimine a seguito di un fatale, quanto repentino, impulso, mai manifestatosi prima. Un’accusa ingiusta.
Anche l’ombra del seriale si è stagliata sulle indagini quando il procuratore aggiunto Roberto Cavallone ha riaperto il caso nel 2002. Notando similitudini tra l’omicidio irrisolto di Simonetta Ferrero, il delitto della Cattolica, e il delitto di via Poma, qualcuno aveva sollecitato la Procura di Roma a valutare la posizione di Mario Toso. Il seminarista, poi consacrato sacerdote, indagato ma scagionato per la morte della Ferrero è risultato estraneo anche ai fatti di via Poma. Nulla di rilevante è emerso.
“Alcuni casi hanno una presa maggiore di altri”, spiega Carlo Lucarelli presentando proprio La ragazza con l’ombrellino rosa, in una libreria romana. “Penso alla morte di Nada Cella, la ragazza di Chiavari ritrovata in un ufficio con la testa fracassata. Uccisa la mattina attorno alle nove quando di gente in giro ce n’era già tanta, eppure nulla. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito. O almeno nessuno lo ha raccontato. Ho dedicato una puntata di Blu Notte a Nada Cella perché è una storia piena di misteri, ma soprattutto per riaccendere l’attenzione attorno ad un delitto dimenticato”.
“La morte di Simonetta Cesaroni ha avuto un destino diverso. A Roma ad agosto una giovane e bella ragazza viene uccisa in modo atroce. Un delitto qualsiasi, per quanto efferato, diventa il giallo dell’estate. Poi, nei mesi a seguire l’attenzione mediatica non scema, anzi cresce”.
“Passano gli anni, ma si continua a parlare e a scrivere del delitto di via Poma. Perché la morte di Nada è stata dimenticata, mentre quella di Simonetta si è fissata in modo indelebile nell’immaginario collettivo?”
“Aprendo i quotidiani del giorno dopo gli italiani trovano la foto di una bella ragazza in costume da bagno su una spiaggia, una normalissima foto estiva, non una foto morbosa. È esattamente ciò che si vede d’estate sfogliando un quotidiano, o una rivista”.
“Non si tratta però di una foto qualsiasi, perché la bella ragazza raffigurata è morta, anzi è stata brutalmente ammazzata. C’è un effetto estraniante. La notizia del delitto sfuma l’incanto della foto e lascia il posto all’orrore”.
Quella foto è divenuta un’icona. Ritrae Simonetta Cesaroni seduta su un telo da mare chiaro. Indossa il costume intero, bianco e sgambato. È distesa, le braccia poggiano entrambe sul telo a sorreggere il busto in avanti. Accanto, ben ripiegati, degli short di jeans ed una maglietta. Nascosti alla vista dal taglio dell’inquadratura, si notano però in un’altra foto scattata quel giorno, stanno un paio di sandali infradito allineati l’uno accanto all’altro.
I capelli neri e lunghi sono mossi, le sopracciglia ben delineate, il naso pronunciato, gli occhi castani. Qualcuno di certo le avrà fatto notare la somiglianza con la cantante Marcella Bella. Le labbra chiuse mostrano un sorriso vago. Lo sguardo è spavaldo, quasi di sfida. Gli occhi, pur socchiusi per la luce solare, riflettono l’ansia di vivere dei suoi vent’anni. Attorno una spiaggia di sabbia chiara. Sullo sfondo onde bianche di spuma, immobilizzate nell’istante precedente al frangersi sulla battigia. Mare di onde veloci agitate dal vento.
La ragazza, nonostante i decenni trascorsi, continua a guardarci da un istante di tempo cristallizzato. Digitando il suo nome su Google per una ricerca di immagini, si ottengono altre tre foto simili. Quelle stampe, oltre a fotografare un momento di svago, raccontano anche un’altra storia. Sono state scattate da Alessandro Tatarella, il suo primo fidanzato, a Passoscuro, piccola località balneare sulla costa tirrenica, nell’estate del 1988. Di lì a poco, ad agosto la ragazza incontrerà Raniero Busco su un’altra spiaggia, probabilmente quella di Torvaianica. Sarà l’amica Donatella Villani a presentarli. I due ragazzi si piacciono subito e Simonetta pone fine alla lunghissima storia con Alessandro. Le foto rappresentano, quindi, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, anche perché la relazione con Busco si connota subito con i tratti di un rapporto adulto.