L’economia dei numeri e della statistica: non sempre tutti i rapporti (che vanno analizzati con attenzione) raccontano il mondo reale [Centosessantacaratteri]

di Enrico Sozzetti

 

Indagini, analisi, rapporti. Lo stato di salute dell’economia italiana nell’era del covid viene misurata anche attraverso questionari e dati statistici. Che vanno, però, letti attentamente e con grande attenzione perché un dato non interpretato in modo corretto può stimolare titolo eclatanti e roboanti, ma che non corrispondono alla situazione reale. È quello che è accaduto recentemente scorrendo due rilevazioni diverse. La prima è dell’Ufficio studi della Cgia (Associazione artigiani e piccole imprese) di Mestre che ha diffuso una indagine sulle imprese artigiane, un settore che a causa della pandemia, è sempre più in affanno. Nei primi sei mesi del 2020 le imprese del settore sono diminuite, a livello nazionale, di 4.446 unità, facendo scendere il numero complessivo a 1.291.156. Nella prima metà dell’anno le regioni che hanno subito i saldi negativi più importanti sono state quelle del Nord: Lombardia (-1.244), Emilia Romagna (-881), Veneto (-687) e Piemonte (-455). L’Alessandrino ha registrato la cessazione di 424 imprese che hanno prodotto un saldo negativo tra iscrizioni e cessazioni pari a -74.

Se questo è il dato del primo semestre, l’andamento successivo ha invece dimostrato come la capacità di reazione del tessuto imprenditoriale artigiano abbia saputo invertire, almeno in parte, la rotta. È di diverso contenuto, infatti, la rilevazione diffusa da Unioncamere Piemonte. In base ai dati del Registro imprese delle Camere di commercio, emerge come nel periodo luglio-settembre siano nate 4.763 aziende in Piemonte, a fronte di 3.375 cessazioni (valutate al netto delle cancellazioni d’ufficio). Il saldo è risultato positivo per 1.388 unità (nel terzo trimestre 2019 era stato di 575 unità). Il bilancio tra nuove iscrizioni e cessazioni si traduce in un tasso di crescita del +0,33 per cento, migliore rispetto a quanto registrato nel terzo trimestre del 2019 (+0,13 per cento) e in linea con il risultato medio nazionale (+0,39 per cento). «Rispetto ai primi due trimestri del 2020, in cui il flusso delle nuove aperture e delle chiusure era stato influenzato dall’emergenza sanitaria, il trimestre estivo sembra aver segnato un ritorno alla “normalità” sul fronte dell’apertura di nuove imprese» si legge si una nota diffusa da Unioncamere regionale. A livello territoriale il risultato migliore appartiene al capoluogo piemontese, che ha chiuso il terzo trimestre con un tasso di crescita del +0,41 per cento. Seguono, con tassi superiori alla media regionale, il Verbano Cusio Ossola (+0,35) e Novara (+0,34). Asti e Alessandria registrano entrambe un tasso pari al +0,26 e la vicina Cuneo segna un +0,23. Chiudono Vercelli (+0,13) e Biella che evidenzia una sostanziale stabilità (+0,01). Questi segni più non indicano certo che tutto stia andando per il meglio. Semplicemente c’è stata una capacità di recupero che in parte, solo in parte, compensa le pesanti criticità dei mesi precedenti.

Anche la recentissima indagine congiunturale trimestrale, la numero centottantaquattro, di Confindustria Alessandria, cui hanno collaborato centootto aziende tra manifatturiere e servizi alla produzione, ha rilevato un quadro in larghissima misura all’insegna dell’incertezza. Lo dimostrano i moltissimi segni ‘meno’, particolarmente pesante quello degli ordini export con un -21 (sono coinvolti tutti i settori produttivi), ma non mancano dati di segno opposto come per la chimica che segnala un + 16 per cento di produzione (la provincia alessandrina è sede di una industria di altissima qualità e innovazione tecnologica), l’alimentare un + 9 (e + 26 per la previsione occupazionale) imputabile alla stagionalità e il settore dei servizi all’impresa che si attesta su un + 4 per le attività. Il tono della presentazione del presidente di Confindustria Alessandria, Maurizio Miglietta, non è stato certo allegro. La preoccupazione è evidente, anche se il tessuto produttivo alessandrino non segnala specifiche criticità, così come non risultano focolai infettivi all’interno delle aziende. «Tutte producono normalmente, nel rispetto dei protocolli di sicurezza. E la differenziazione produttiva, con la presenza di prodotti di eccellenza, è quella che aiuta in particola la piccola e media impresa. Chi soffre di più – sottolinea Miglietta – sono quelle sotto i nove dipendenti, va un po’ meglio per quelle oltre i cinquanta. Da 110 a oltre 250 dipendenti il quadro che emerge è più positivo rispetto a ordini e tenuta produttiva. Un settore come quello della produzione di macchinari ad alta tecnologia ha lavorato molto, rispettato ordini e consegne, però c’è la sensazione che faccia fatica a concretizzare l’impegno in nuovi ordinativi. Chi resisterà? Chi ha i piedi di argilla avrà più difficoltà». Prima di entrare nel dettaglio dell’indagine, illustrata tecnicamente da Giuseppe Monighini, responsabile dell’Ufficio Studi, Miglietta dice ancora: «Il 37,5 delle imprese ritiene che il recupero dei livelli pre-crisi possa avvenire entro il 2021. Perché questo avvenga, però, dovremo reagire con forza a questa seconda ondata del virus, nella società e nelle fabbriche. Come ha detto Carlo Bonomi (presidente nazionale di Confindustria) alla nostra assemblea annuale, questo è il momento delle riforme, che ancora non arrivano, per avere un Paese normale. Rilanciare e rendere strutturale “Industria 4.0” è fondamentale, come ha detto, per sostenere produttività, occupazione, formazione, ricerca e innovazione. E la trasformazione in chiave 4.0 delle imprese deve essere sostenuta da investimenti istituzionali».

I dati di sintesi dell’indagine vedono una provincia questa volta più in sofferenza rispetto al quadro regionale. L’occupazione cresce a –3 (era –15), la produzione a –10 (era –31), gli ordini totali a –14 (era –31) e gli ordini export a –21 (era –26). In rialzo le attese sulla redditività a –23 (era –40). In calo la previsione di ricorso alla cassa integrazione formulata dal 37 per cento degli intervistati. La propensione a investire cresce (è dichiarata dal 68 per cento degli intervistati contro il precedente 59), come anche il grado di utilizzo degli impianti al 71 per cento della capacità (era il 64).