A cura di Angelo Marenzana
Quattro mani per firmare un giallo scritto da due maestri del genere. Una storia dal ritmo incandescente ambientata nella campagna umbra. Un serial killer a caccia di amanti appartati nel buio nelle notti di plenilunio. Un commissario che indaga sapendo di avere le ore contate, Ilaria Del Poggio. Stiamo parlando di Il prossimo novilunio il romanzo di Enrico Luceri e Antonio Tentori pubblicato dalla casa editrice Oltre.
Enrico Luceri è un autore già conosciuto tra i lettori di ALlibri, ricordiamo però, tra i tanti, alcuni suoi romanzi: Il vizio del diavolo (Edizioni Oltre, 2020), Le notti della luna rossa (Mondadori, 2019), Le colpe dei figli (Mondadori, 2015), Buio come una cantina chiusa (Mondadori, 2013), Le strade di sera (Hobby&Work, 2012), Il mio volto è uno specchio (Mondadori, 2008). Nel 2008 ha vinto il premio Alberto Tedeschi, organizzato dal Giallo Mondadori.
Antonio Tentori ha pubblicato la riduzione del romanzo di Emilio Salgari La gemma del Fiume Rosso (Tabula Fati, 2018), la novelization del film Inferno di Dario Argento (in Terrore Profondo, Newton Compton, 1997), le antologie di racconti La bestia dentro (Profondo Rosso, 2015) e Nero Profondo (Cut Up, 2008). Con Enrico Luceri ha pubblicato inoltre il thriller La voce del buio (Mondoscrittura, 2017). Come sceneggiatore ha lavorato, tra gli altri, con Argento, Lucio Fulci, Sergio Stivaletti e Claudio Lattanzi.
E adesso, buona lettura con un estratto di Il prossimo novilunio.
… Notte di novilunio. Cielo nero, senza stelle. La dolce campagna umbra era avvolta da una silenziosa oscurità, soffice come un manto di velluto. Nonostante fosse ottobre inoltrato, l’aria era ancora tiepida, quasi estiva. Macchie di cespugli, alberi e rovi si dispiegavano disordinatamente, in una zona lontana da centri abitati e strade principali. Il chiarore metallico di una macchina parcheggiata in una radura sterrata strideva in quel contesto immoto e naturale. All’interno dell’auto, una ragazza e un ragazzo si baciavano con trasporto, come in un’oasi perduta dove soltanto loro due esistevano. Ma lei a un tratto si staccò da lui, inquieta.
«Rita! Che hai?»chiese il giovane, guardandola stupito e anche leggermente infastidito.
Rita spinse lo sguardo oltre il parabrezza, nel buio.
«Mi è sembrato di aver visto muoversi un cespuglio, e ho sentito uno strano rumore.»
Il suo ragazzo scosse la testa, sorridendole con aria conciliante.
«Chi vuoi che ci sia qui, a quest’ora… sei la solita fifona.»
Rita lo interruppe, nervosa.
«Non mi piace questo silenzio, c’è qualcosa che non va in questo posto. Per favore, Gino, andiamocene!»
Sbuffando, Gino appoggiò la mano sulla maniglia della portiera. Guardò ancora Rita, questa volta un po’ più serio.
«Ti lasci suggestionare troppo da tutti quei film horror che vedi. Perché non cambi genere? Commedie, magari.»
Per tutta risposta Rita si rannicchiò in sé stessa, con gli occhi impauriti sempre puntati nell’oscurità. Gino scese dalla macchina. Diede un rapido sguardo intorno. Nessun rumore. Silenzio. Neanche il verso di un animale notturno. Come se la notte stessa trattenesse il proprio respiro. Si avvicinò a un’ispida parete di cespugli poi,alzando le spalle, rientrò nella vettura. Rita lo guardava, intimorita. Lui cercò di tranquillizzarla.
«Non c’è nessuno, soltanto noi. Cosa pensavi … che ci spiasse un guardone?»
Poi il ragazzo l’attirò a sé e la baciò, ma lei rimase rigida e assente. Dalla radura, i volti dei due giovani erano visibili a malapena dietro i vetri appannati dell’auto.
Due occhi gelidi e ostili fissavano la coppia che amoreggiava. Le foglie del cespuglio si mossero appena, come sospinte da un refolo di vento. Due mani calzarono guanti di lattice. Quindi una mano estrasse dalla tasca laterale di un giubbotto di pelle una pistola e ne tolse la sicura. L’altra accarezzò lieve l’impugnatura di un coltello infilato in una fondina nella cintura. Infine una sagoma scura uscì dall’ombra, che fino a quel momento l’aveva del tutto celata. Un paio di anfibi di tipo militare avanzarono piano verso l’auto. L’individuo si accostò rapido alla macchina, fermandosi davanti al finestrino del guidatore.
Gino era a torso nudo, Rita in reggiseno, la gonna le lasciava scoperte le gambe. La ragazza vide lo sconosciuto e tentò invano di avvertire Gino. Ma l’urlo le restò soffocato in gola. Alcuni spari lacerarono d’improvviso quel silenzio irreale. Gino, colpito a morte, si accasciò su sé stesso. Acuminate schegge di vetro e copiosi schizzi di sangue raggiunsero Rita, che urlò disperatamente. L’orrore era vero ed era lì per lei. Altri spari echeggiarono e un proiettile raggiunse la ragazza a una spalla.
Veloce e implacabile, l’assassino girò intorno all’auto, aprì lo sportello e l’afferrò per le braccia. Rita cercò vanamente di dibattersi e finì riversa sul terreno incolto. Con gli occhi dilatati dal terrore, strisciò all’indietro per sottrarsi alla morte. Ma il carnefice si mise davanti a lei, impugnando il coltello. Una furia cieca e sanguinaria animava la sua mente. Impazzita dal terrore, Rita gridò ancora. Poi vide incredula il volto dell’assassino mentre si chinava su di lei. Il coltello piombò ripetutamente sul suo corpo seminudo. La lama si abbatteva sulla ragazza, squarciando e lacerando, in un crescendo delirante. Quindi la figura si rialzò e, senza guardare più le sue vittime, si allontanò nella macchia.
Silenziosa come uno spettro …
… L’utilitaria di Ghelfi si fermò su una stradina sterrata davanti alla macchia. L’investigatore scese dall’auto e richiuse la portiera. Il rumore metallico spaventò un nibbio, che volò via dal ramo del castagno su cui era appollaiato. Quell’improvviso fruscio di ali inquietò per un attimo il detective, che poi si diresse verso la macchia. L’aria era tiepida, nonostante fosse autunno inoltrato. Mentre le sue scarpe schiacciavano con un sordo crepitio le foglie secche, Ghelfi si sbottonò il giubbotto impermeabile. Diede un’occhiata distratta alla natura che lo circondava, alle cime degli alberi, a una coltivazione di girasoli. Di colpo si arrestò, sentendo lo scroscio invitante di un vicino ruscello. Fece per muoversi in quella direzione, per bere un sorso di quell’acqua che immaginava fredda e limpida, ma poi si avviò decisamente verso il fitto della macchia. Il cammino non era dei più agevoli e qualche rovo gli graffiò un polso, facendolo girare di scatto come se lo avesse morso una vipera. All’interno della macchia, il tepore di quella mite giornata autunnale era ancora più intenso. Gli abiti gli si appiccicarono alla pelle, come una sorta di fastidiosa pellicola intrisa di calore e di umidità. Dopo un centinaio di passi, Ghelfi vide sul lato destro dello stretto sentiero che stava percorrendo uno stagno, circondato da un canneto. Una grossa biscia strisciò via, disturbata dalla sua presenza. L’investigatore si fermò, guardandosi di nuovo intorno. In quell’ambiente naturale sentiva di essere fuori posto, un intruso, un ospite indesiderato. Proseguendo il cammino, scostò da una parte un ramo e senza volere finì per spezzarlo. Il battito d’ali di un uccello impaurito aumentò il suo senso di colpa. Inquieto, affrettò allora il passo, attento a non cadere in qualche forra nascosta dalla vegetazione, fino ad abbandonare la macchia e a trovarsi subito dopo immerso nel bosco. La prima sensazione che ebbe fu di freschezza, un soffio leggero che spazzava via l’umidità e asciugava il sudore sulla pelle. Ma l’impressione successiva contrastava nettamente con la prima. Era subentrato infatti un insopportabile odore, un tanfo sottile che si insinuava nelle narici in modo soffocante. Dopo qualche metro il fetore crebbe ulteriormente, fino a manifestarsi come l’odore nauseante della decomposizione di qualche animale del bosco. Così come lo aveva assalito repentinamente, quella sensazione scomparve. Ghelfi intanto era giunto in una radura, circondata da alberi di alto fusto. Riconobbe lecci e pini, ma la sua attenzione venne attratta da una imponente quercia, le cui grandi e nodose radici emergevano dal terreno come la schiena di un immane serpente che giace addormentato da secoli. L’investigatore ebbe la singolare percezione che quel rettile da favola fosse addormentato, sì, ma in qualche modo sempre vigile. Poi, d’improvviso, tutto precipitò intorno a lui e, per non cadere, si aggrappò al tronco della quercia. Rimase per alcuni minuti così, le braccia tese ad abbracciare il grande albero accarezzando, in un primo momento, la corteccia rugosa. Poi si mise a spingere il tronco con il palmo delle mani, quasi a voler assurdamente far cadere l’albero e scoperchiare la terra al di sotto per svelare le profondità insidiose di quelle secolari radici. Lasciò infine la presa, sfinito, e raggiunse con passi malfermi un vecchio tronco rovesciato. Vi si sedette pesantemente, cominciando a riprendersi da quell’insolito capogiro. Si chiese cosa ci facesse lì, in quel luogo. Aveva la precisa consapevolezza di essersi cacciato in un caso più grande di lui e solo per il ricordo di un’antica amicizia. Poi la sua parte emotiva prevalse e Ghelfi comprese di rappresentare l’unica speranza per Armando Portelli. La sola persona che avrebbe potuto scagionarlo da un’accusa terribile. Un leggero fruscio alle sue spalle lo distolse da quei pensieri. Non volle voltarsi subito, quasi per una forma di rispetto per il bosco e per i suoi abitanti. Con la coda dell’occhio vide un istrice trotterellare via e un tasso affacciarsi dalla sua tana, fiutando sospettoso l’aria e muovendo la piccola testa in ogni direzione. Vedere quei piccoli animali e trovarsi nel bosco lo spinse a prendere la decisione definitiva. Nel suo sguardo si leggeva una nuova determinazione. Forse la sua indagine era una follia, ma intendeva andare avanti comunque. A tutti i costi. Si alzò dal tronco, chiuse gli occhi e lasciò andare la mente, provando a immaginare chi si era aggirato in quel posto in una notte di novilunio. Qualcuno che camminava con sicurezza tra la vegetazione, senza alcuna fatica né esitazione. Qualcuno, quindi, che era in grado di muoversi con disinvoltura anche di notte, al buio, perché conosceva bene la zona. Un bracconiere, un cacciatore o una guardia forestale? Qualcuno che avanzava lento e implacabile verso un’auto ferma in un sentiero, che spiava la coppia al suo interno, che impugnava una pistola. Qualcuno che sparava una serie di colpi micidiali, poi spalancava la portiera della vettura e trascinava fuori la ragazza ferita per gettarla sul terreno e massacrarla a coltellate. Qualcuno del tutto indifferente agli scoiattoli che si arrampicavano sui rami degli alberi, al gufo che lo fissava con i grandi occhi giallastri e agli altri animali che potevano aggirarsi nel boscoa quell’ora. Perché quella notte c’erano stati dei testimoni oculari, ma purtroppo non potevano parlare. Ghelfi riaprì gli occhi e guardò la radura in cui si trovava, come se potesse in qualche modo aiutarlo a trovare la chiave di quell’enigma sanguinoso. Perché un modo c’era, doveva esserci, per scoprire un indizio, una traccia. Avrebbe dovuto afferrare un capo di quella matassa intricata, anzi un lembo del sipario, come aveva letto in un romanzo giallo tanti anni prima di diventare investigatore. Doveva sollevare quel lembo e guardare cosa si nascondeva dietro. Si era alzata una brezza fresca, che agitava le foglie degli alberi e gli scompigliava i capelli. Ghelfi riabbottonò il giubbotto e riprese il filo dei suoi pensieri. La notte del primo delitto c’era stata una sagra, in un paese poco distante dalla contrada Poianella. C’era diversa gente per le strade e forse anche nei dintorni, come sempre accade in queste occasioni. L’assassino che aveva aggredito i due giovani sapeva muoversi senza suscitare sospetti e attraversare i campi di girasole come uno spettro, capace di orientarsi anche nell’oscurità. Le sue scarpe che avanzavano sul sentiero, gli animali notturni che assistevano impotenti all’eccidio. L’ombra dell’assassino che si confondeva con quelle disegnate dalla luce livida della luna sul terreno incolto. Chi poteva essere? Un contadino, un cercatore di funghi o un poliziotto?La metodicità e la determinazione con cui commetteva i delitti senza lasciare alcuna traccia facevano pensare a un individuo che svolgeva un lavoro in grado di consentirgli di muoversi liberamente nel territorio scelto come teatro delle uccisioni. Un individuo freddo, pianificatore, organizzato. Un simulatore abile, che nella vita quotidiana può apparire cordiale o addirittura di indole mite. Una persona dotata di un’intelligenza elevata, superiore alla media, ma con una personalità sicuramente schizofrenica. Un assassino pervaso da un delirante senso di onnipotenza, che uccideva coppie sorprese ad amoreggiare. Poteva essere una sorta di punitore moralista?
Ghelfi indugiò ancora nella radura silenziosa. Si sentiva a suo agio e poteva pensare liberamente, senza condizionamenti esterni. All’imbrunire, decise infine di tornare alla sua auto, lasciando la natura alla propria armonia. Solo allora l’istrice e il tasso, tranquillizzati, emersero dalle loro tane e la poiana si alzò finalmente in volo. Il detective si accorse che non fumava da quando si era inoltrato nel bosco. Chissà, si chiese, se lo aveva fatto soprappensiero, temendo di inquinare quella natura strana e selvaggia, che pareva sospesa nel tempo. Mentre camminava, attraversando prima il bosco e poi la macchia, il suo pensiero non abbandonava il caso: quale poteva essere il movente dell’assassino? Uno psicopatico che uccideva a ripetizione a causa del trauma ipotizzato dai consulenti psichiatrici della procura, come aveva letto nella loro perizia, che l’avvocato Cavicchioli aveva ottenuto, ne era certo, ufficiosamente? E colpiva nelle notti di novilunio, perché spinto dal proprio delirio omicida. In ogni caso si trattava di un individuo che abitava nella zona dei tre omicidi, conosceva paesi e campagne, persone e loro abitudini.
Sbucato dalla macchia, l’investigatore vide spiccare in lontananza un alto muro di cinta, che delimitava probabilmente una villa. Decise di controllare da vicino e salì in macchina avviando il motore. Dopo un paio di chilometri giunse in prossimità di una grande abitazione. Rallentò. Passando davanti al cancello individuò una targa che recava scritto in caratteri svolazzanti “Villa Cortoni”. Quel cognome gli suonò familiare e ricordò di averlo letto consultando le carte dell’inchiesta. Si promise di ritornare per dare un’occhiata più approfondita.
Il piccolo ufficio gli parve un confortevole rifugio dopo quasi un’intera giornata trascorsa all’aria aperta, a contatto con la natura. Ma l’immersione nel luogo del primo delitto lo aveva galvanizzato. Non sapeva perché, ma sentiva che quella intrapresa era la strada giusta per iniziare a cercare il lembo del sipario. Riprese a leggere freneticamente la documentazione consegnata dall’avvocato Cavicchioli. Sapeva cosa cercare e il nome gli apparve ben presto: Villa Cortoni. I proprietari erano due fratelli, Vanni e Cristina. Stabilì di recarsi l’indomani alla villa per cercare di parlare con qualcuno.
Il massiccio cancello in ferro battuto di Villa Cortoni era spalancato. Lorenzo Ghelfi parcheggiò l’utilitaria qualche metro più avanti. In quel momento stava uscendo dal cancello un uomo robusto sui cinquant’anni, che spingeva una carriola stracolma di foglie secche, rami e ramoscelli. L’investigatore trattenne a stento la propria soddisfazione e si affrettò dietro l’uomo.
«Buongiorno …»
L’altro fermò la carriola e si voltò, guardandolo con aria interrogativa, ma cordiale. Non sembrava un tipo particolarmente sveglio, ma forse era meglio così.
«Buongiorno» rispose, asciugandosi il sudore dalla fronte con un braccio muscoloso.
Ghelfi lo raggiunse.
«Mi scusi, ho visto la villa …» Indicò l’edificio che si scorgeva alle sue spalle. «Mi chiedevo se per caso fosse possibile affittare una stanza per qualche giorno.»
Il giardiniere scosse la testa «No, mi dispiace, non ci sono stanze in affitto. I signori amano starsene per conto loro.»
Ghelfi non si perse d’animo.
«Capisco. L’ho chiesto solo perché è una gran bella villa e a volte c’è chi ne affitta una parte.»
L’uomo impugnò di nuovo i manici della carriola e riprese il cammino, voltandosi leggermente verso il suo interlocutore.
«Devo andare a scaricare questa roba. Se vuole, può accompagnarmi.»
Il detective intuì che quell’uomo aveva voglia di parlare e non si fece ripetere l’invito, raggiungendolo.
«Certo. Una sigaretta?»
Il giardiniere scosse il capo e gli diede un’occhiata, mentre lui ne accendeva una.
«Grazie, no. Fumo solo quelle che faccio da me. Lei è di queste parti?»
L’investigatore preferì rimanere nel vago …