di Enrico Sozzetti
Forse per la prima volta si è invertito il tipico canale delle informazioni scientifiche che ha sempre visto gli esperti pubblicare sulle riviste di settore i risultati di studi e ricerche, poi ripresi successivamente dai mass media generalisti.
La pandemia di coronavirus ha cambiato molte cose e una di queste è proprio la comunicazione. Fino al mese di febbraio era difficile trovare medici e scienziati disposti a parlare, in tempo reale, di quanto stava avvenendo sul fronte della ricerca e della cura. La prassi è sempre stata quella di studiare, verificare, procedere con le sperimentazioni e poi, solo al termine dei processi, pubblicare i risultati, prima sottoposti all’esame della comunità scientifica nazionale e internazionale. Invece in Italia e in Francia, in modo particolare, è accaduto il contrario. E alcuni degli specialisti hanno iniziato a raccontare, sugli organi di informazione generalisti, cosa si stava facendo nei reparti ospedalieri piuttosto che nei laboratori sul fronte della lotta e cura del covid-19.
La narrazione quotidiana scandita dal numero di ricoveri, decessi, guarigioni, tamponi positivi e negativi, è stata affiancata da quello della ricerca e delle prime terapie.
È avvenuto in Italia, in Francia e in Europa, ma con modalità diverse. Spesso lo spazio è stato più facilmente trovato inizialmente su testate piccole, specializzate, sui blog giornalistici, mentre questi racconti hanno fatto molta fatica, per settimane, a raggiungere le grandi testate nazionali.
Il fenomeno adesso inizia a essere analizzato e, come avviene negli ambienti scientifici, è scoppiata la polemica. Un intervento di Vittorio Pelligra, docente di Politica economica all’università di Cagliari, sulle pagine de “Il Sole 24 Ore” ha affermato che «la necessità di sviluppare nuove conoscenze sulla base delle quali orientare gli interventi ha determinato una grande proliferazione di studi sul tema covid-19. Pochissime di queste ricerche sono state pubblicate su riviste con la peer-review, moltissime, invece, hanno visto la luce come pre-prints, come versioni preliminari, cioè, che non hanno ancora passato il vaglio ufficiale della comunità scientifica. La novità sta nel fatto che, in condizioni normali, mai questi risultati preliminari sarebbero arrivati alla stampa e sarebbero stati rilanciati con enfasi dalla stampa e amplificati ulteriormente dalla diffusione sui social. Oggi questo capita spesso e può rappresentare un problema».
Ma c’è chi ha invece visto un altro aspetto. L’Economist (settimanale d’informazione politico-economica edito a Londra) ricorda che «il sistema di peer-reviewing non è esente da errori: capita che studi scientifici vengano pubblicati su rivista previa revisione degli esperti e poi ritirati, per manifesta infondatezza, quando però il danno è ormai stato fatto. Ivan Oransky di Retraction Watch, si occupa proprio di cattive pratiche scientifiche, è convinto che i pre-prints possano facilitare una verifica multidisciplinare degli articoli: uno studio sul distanziamento sociale revisionato da soli virologi tenderà a sottovalutarne gli impatti economici, uno revisionato da soli economisti gli impatti sanitari. Meglio, dunque, un server di pre-prints a cui possano aver accesso sia virologi che economisti».
Sono un giornalista specializzato in economia e in sanità. E proprio raccontando l’epidemia fin da quando ha iniziato a manifestarsi in Cina, ho avuto modo di rivolgermi a esperti italiani che hanno saputo prima fornire moltissimi chiavi interpretative, poi entrare nel merito del possibile trattamento dei pazienti infettati dal covid-19, in particolare alla prima comparsa dei sintomi iniziali (non quando il quadro peggiora), con un farmaco “vecchio”, quasi dimenticato, come l’idrossiclorochina (il nome commerciale è Plaquenil) usato prima per la malaria e poi per l’artrite reumatoide.
Un esempio di esperto che ha iniziato a raccontare sui mass media quello che stata sperimentando, ancora prima di pubblicare studi scientifici, è stato il francese Didier Raoult (dirige l’istituto ospedaliero-universitario Mediterrannée Infection di Marsiglia). E anche per lui non sono mancate diffidenze, contrasti, polemiche, scontri con le istituzioni. Ma la sua competenza e visione hanno consentito anche l’avvio di un percorso di trattamento, con il Plaquenil, successivamente condiviso dalla sanità francese e il riconoscimento è arrivato, dopo un po’ di tempo, anche da testate nazionali e internazionali. Raoult, eccentrico e decisamente anti – establishment, ha sempre tirato diritto, pur a fronte dell’ostracismo di una parte della comunità scientifica francese e parigina in particolare (non che sia andata meglio a Paolo Ascierto, direttore dell’unità di immunologia clinica del Pascale di Napoli, che insieme a un gruppo di colleghi ha avuto l’intuizione dell’utilizzo del Tucilizumab. Anche per loro, attacchi e critiche).
In Italia alcuni infettivologi, che da decenni si occupano di queste malattie a livello internazionale, sono stati anch’essi protagonisti di questo fenomeno comunicativo che li ha visti raccontare e raccontarsi su blog, giornali locali, video di informazione su youtube, socialnetwork e poi essere al centro dell’interesse dei grandi giornali. Un esempio piemontese è quello di Pietro Luigi Garavelli, alessandrino, classe 1961, infettivologo, direttore delle Malattie Infettive dell’ospedale ‘Maggiore’ di Novara (in precedenza ha lavorato per molti anni nel reparto di Malattie infettive dell’ospedale di Alessandria). . Nel suo caso, l’attenzione si è conAnche lui, come altri colleghi, ha utilizzato canali inusuali per trasmettere conoscenze scientifiche in tempo realecentrata sul Plaquenil e sul trattamento immediato alla comparsa dei sintomi iniziali. Il modello di intervento messo a punto a Novara è stato poi adottato da altre realtà, a cominciare da quella alessandrina.
Quello che sta contrassegnando la pandemia del covid-19 è il fatto che non si è di fronte a scoperte rivoluzionarie nel campo farmacologico o della genetica, bensì la novità è nell’uso di strumenti già noti come l’idrossoclorochina (usata da decenni e decenni da decine di migliaia di persone) per una malattia invece in larga parte nuova.
In una fase storica segnata da cambiamenti che avvengono a grande velocità e in una emergenza planetaria che ha cambiato tutte le regole (economiche, sociali, scientifiche), l’uso dei mass media come anticipatori della scienza è un altro tassello del complessissimo puzzle del mondo nel terzo millennio.