L’ultima storia da raccontare (del 2019) [Il Superstite 450]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1di Danilo Arona

 

Quest’anno che sta per chiudersi ho scritto 8 racconti su richiesta. Il che, se da un lato mi ha impedito di progettare qualcosa di più ampio respiro, , dall’altro mi ha fatto riassaporare la bellezza del racconto breve. Possibilmente secco e tagliente, con la celebrata ending surprise. Vi regalo questo, come ultima esibizione annuale del Superstite. S’intitola Le fusa e non ho bisogno di ricordare al mondo che io i gatti li adoro. Buon 2020!

 

«Te la racconto io la storia. In qualche laboratorio super-segreto dall’altra parte del pianeta hanno modificato il genoma di un virus per annientarli in modo selettivo. Loro dovevano morire. Solo loro, non i cani, i leprotti o le volpi. Andavano colpiti soltanto i gatti, lasciando indenni tutte le altre razze. Qualcosa non ha funzionato. Loro non sono affatto morti, diventando quello che sono adesso…»

Parlavo a vanvera, a essere sincero. Ma la Rete, prima di svanire due giorni prima, aveva lanciato allarmi e ipotesi tanto inquietanti quanto fondate. In alcuni casi, si facevano nomi e cognomi dei responsabili del contagio sbagliato. E si pubblicava anche l’indirizzo del laboratorio criminale, ubicato a Long Island, New York.

Fabienne, accanto a me, lo sguardo perso verso l’oscurità nel profondo del vallone, annuì in silenzio. Mi dava ragione ma non voleva crederci.

A essere sincero neppure io.

Perché mai gli uomini avrebbero dovuto inventarsi un virus selettivo soltanto per toglierli di mezzo, tutti e in un sol colpo? Ci sentivamo tanto minacciati? Okay, lo shock – soprattutto lo shock culturale – era stato notevole.

Ti svegli una mattina, sembra tutto normale e… no. Niente più è normale. I gatti si sono messi a parlare, si reggono in piedi sulle zampe posteriori e stanno, con inesorabile lentezza, crescendo ad altezza di uomo.

Per quale ragione? E chi lo sa? Gli scienziati hanno proposto un sacco di tesi, una più strampalata dell’altra. Da cellule feline geneticamente modificate a un’invasione aliena, dall’avvenuto sopravvento dei Maine Coon su tutte le altre razze con effetti sorprendenti e inaspettati alle radiazioni contratte nel corso degli anni da rifiuti tossici nucleari. Appunto, strampalate, perché tentavano di spiegare l’evento più strampalato nelle reciproche storie dell’umanità e della felinità.

I gatti, nel giro di una notte (o poco più), avevano azzerato le distanze tra loro e noi. Parlavano, una lingua miagolata ma comprensibile. Si vestivano, adattando giacche, maglie e pantaloni dei loro padroni (quelli che prima erano randagi si erano adattati a un ruolo marginale di clochard) e per ovvie ragioni rinunciando alle scarpe. E, soprattutto divenuti alti quasi quanto noi, pretendevano di non essere più trattati da animali da compagnia. Volevano lavoro, soprattutto intellettuale – lo sapevamo da secoli che l’intelligenza del gatto è di gran lunga superiore alla nostra – posti di responsabilità e giustizia per i maltrattamenti subiti da sempre.

Tutto ciò lo chiedevano con educazione, ma si trattava di domande più che legittime alle quali era impossibile negarsi. Già prima della mutazione un gatto incazzato era in grado – se incazzato sul serio – di massacrare un umano. Avete presente un gatto mutato che s’incazza?

Lo shock culturale in tutto il pianeta si era dimostrato così destabilizzante che di colpo erano cessate tutte le tante micro-guerre in atto da est a ovest. In Cina o in certe nazioni del Medio Oriente, laddove i gatti erano stati da sempre perseguitati, si doveva fronteggiare un nuovo, pericolosissimo nemico interno: il gatto antropomorfizzato, ma fuor di metafora e di simbolo.

E così le grandi potenze, stabilito un fronte comune con gli stati canaglia, si erano inventati – questa la tesi circolante su Internet – un morbo prodotto in laboratorio per risolvere il problema. Diffusione su scala planetaria per via aerea. Ovvero, milioni di gatti morti.

Sì, ma per 48 ore soltanto. Giusto il tempo per iniziare a imputridire un pochino.

Poi, come in quel film del 1968 che si chiamava La notte dei morti viventi nel quale gli esseri umani tornavano dalla morte per effetto di una sonda lanciata su Venere e tornavano, accidenti a loro, come zombie, i gatti mutati e cresciuti ad altezza di uomo si sono alzati dal loro presunto sonno eterno e hanno iniziato a camminare caracollando.  Proprio come quelli là. A sbranare. A mangiare carne umana.

Sì, okay, spari loro addosso (in testa, faccenda già vista) e  muoiono. Ma loro sono milioni, velocissimi, astuti e, cazzo, continuavano ad avere sette vite anche da morti viventi.

«Dan?»

Fabienne mi chiamava. Dopo il tracollo avevamo fatto appena in tempo a saltare sul SUV e a raggiungere la nostra baita in montagna. Non prima di averne investiti e spiaccicati una dozzina sull’asfalto. Chissà perché, ma ero convinto che su alle alte quote i gatti non amino affatto andarci. Non è mica vero, non lo era nemmeno prima.

«Dimmi, amore…»

La baita si ergeva proprio su un cucuzzolo. Il sentiero per arrivarci quanto mai accidentato. Ci azzeccava molto più un SUV di un gatto. Il vallone, a strapiombo sotto di noi, risultava in buona parte occultato dalle conifere svettanti e dall’ombra proiettata dalla montagna per effetto del tramonto in corso.

«Dio santo, ma lo senti?»

Tesi l’orecchio. Ma sapevo bene che Fabienne ci arrivava sempre un minuto prima. Mia moglie è una sciamana.

Poi lo udii anch’io.

L’immenso ronfare che veniva su dal vallone.

Le fusa.

Migliaia di gatti a dimensione umana stavano facendo le fusa inerpicandosi su per la nostra montagna. Un rumore gigantesco e terrificante. Una vibrazione insostenibile che cresceva a ogni metro guadagnato.

«Andiamo dentro. Subito!»

Scappammo in casa. Chiusi la porta con la doppia serratura a incastro. Spensi tutte le luci e corremmo di sopra, nella piccola mansarda, dalla quale si poteva contemplare l’esterno da una microscopica finestrella cieca. Sapevo bene che non sarei mai riuscito a dar loro da bere che in casa non viveva nessuno. Figurarsi, il motore del SUV era ancora caldo.

Infine li vedemmo arrivare. Era un’orda. Avanzavano verso la casa, le zampe anteriori rigidamente protese in avanti, lo sguardo vitreo da zombie e le orecchie basse, il ronfare condiviso che ricordava un demoniaco cigolio di mantici arrugginite, i vestiti laceri a brandelli, occhi morti e sbarrati, carne putrida che penzolava dalle ossa.

«Come possono averci scovato in così poco tempo?», la mia inutile domanda.

«Guarda chi li guida Non è possibile!»

«Ash…»

Bianco batuffolo che avevo intravisto in un fosso tre anni prima, cucciolo di due mesi, che aveva scaldato e riempito la nostra vita senza figli. Mi ero fermato subito e, una volta sceso sotto la pioggia battente, mi ero avvicinato a lui nella speranza che non fuggisse in preda alla paura. Invece mi era saltato tra le braccia e aveva preso a fare le fusa.

Le fusa di Ash, inconfondibili.

E i gatti trovano sempre la strada di casa.

Ash era sparito tre giorni prima della mutazione.

Adesso tornava, faceva le fusa.

Le faceva sempre prima, due volte al giorno, mattino e sera, quando scoccava l’ora di mangiare.