di Dario B. Caruso
Arriva l’Immacolata e giunge l’ora di allestire il Presepe.
La cosa che preferisco del Natale è l’idea che tutti lo attendano, chi per celebrarlo cristianamente, chi perché spera di diventare buono, chi perché prelude ai saldi, chi perché prima passa e meglio è.
Una volta qualcuno mi disse che continua a festeggiare il Natale non per se stesso ma per assecondare chi è rimasto; anche questo è un modo.
Insomma, il Natale rappresenta un giorno inevitabile per tutti.
Mi appresto al Presepe, dunque.
Per prima cosa la carta stropicciata per le montagne. La stessa da sette anni a questa parte. Si sta sfarinando e lascia un effetto davvero realistico, sembrano le Alpi marittime che lentamente scendono a valle.
I pastorelli sono fagotti e clarinetti, le pastorelle lire e cetre, le greggi di oboi e sassofoni costeggiano il laghetto di specchio, la filatrice è un’arpa, la lavandaia un organo idraulico, l’arrotino una ghironda, Benino una cornamusa silenziosa.
Sul fondo la capanna, come un piccolo proscenio.
La mangiatoia ha al centro una manciata di finta paglia sulla quale la notte del 24 poggerò Gesù Violino.
Ai lati Madonna Viola e Giuseppe Violoncello, poco dietro due grandi canne d’organo che soffiano aria calda.
In alto due Angeli Liuto i quali allietano l’aria con crome e semicrome che scendono verso il basso come fiocchi di neve.
Invisibile agli occhi ma indispensabile alla storia il Grande Direttore che con la sua bacchetta ha progettato il racconto duemila anni fa e ancora oggi, deus ex machina, lo ripropone senza timore (unico spettacolo a replicare migliaia di volte con incassi stratosferici).
Finito.
Anche per questo Natale ho concluso, mi resta solo da inserire la fila di lucine a led acquistate sabato nell’ultimo negozietto di quartiere che non ha ancora il bancomat “e non ci penso nemmeno ad acquistarlo!” dice.
Cambia il mondo ma il Natale resta, così come il mio Presepe.