di Mauro Remotti
Gea della Garisenda[1], al secolo Alessandra Drudi, nasce a Cotignola (Ravenna) il 24 settembre 1878 da una famiglia modesta – il padre Emilio gestisce un’osteria – e molto numerosa (ben 26 figli). Viene quindi affidata alle cure delle suore del Collegio Don Morelli di Lugo di Romagna, dove mostra una precoce predisposizione al canto. Grazie a una pubblica sottoscrizione promossa dal sindaco di Cotignola, riesce a iscriversi al Conservatorio di Bologna seguendo le lezioni del maestro Masetti. Il suo esordio sulle scene avviene il 2 settembre 1899 al Teatro Rossini di Lugo: interpreta la parte di Mimì ne La bohème di Puccini.
Nel 1907 decide, anche per ragioni economiche, di passare all’operetta, uno spettacolo teatrale e musicale allora molto in voga. Si fa subito notare per le sue notevoli doti artistiche recitando ruoli sentimentali in storie ambientate nella buona società del tempo[2]. “Nell’arte sua – riporta un quotidiano dell’epoca – cantano la gaiezza e la malinconia dello schietto popolo romagnolo”. Il nome d’arte di Gea della Garisenda le viene attribuito da Gabriele d’Annunzio per ricollegarla alla sua terra d’origine[3].
La sua più importante affermazione la ottiene nel 1911, quando lancia, poco prima dell’inizio della guerra alla Libia, l’inno patriottico Tripoli, inserito nell’operetta “Monopoleone”. Il motivo, diffuso dagli organetti e dai rari grammofoni, diventa notissimo, soprattutto per il primo verso della strofa, Tripoli bel suol d’amor[4]. Secondo alcune fonti dell’epoca, Gea della Garisenda si presenta sul palco del teatro Balbo di Torino vestita soltanto della bandiera italiana, provocando uno scandalo: in realtà indossa la divisa bianca della Marina con sopra il tricolore che la fascia strettamente esaltandone le forme.
Considerata una delle donne più belle d’Italia, ha molti ammiratori e corteggiatori: Salvatore Di Giacomo, Trilussa (che le dedica una poesia), Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Olindo Guerrini e Ruggero Leoncavallo, il quale tenta inutilmente di convincerla a tornare all’opera lirica.
Nel 1912 Gea della Garisenda costituisce una propria compagnia teatrale, la Compagnia Italiana di opere comiche ed operette Maresca-Garisenda-Caracciolo, che lavora in Italia negli anni antecedenti la prima guerra mondiale. Anche il cinema muto la vede protagonista nel film di Mario Beccatelli “La vergine innamorata” e successivamente in “Amor che nulla vince”.
Ad Alessandria si esibisce al Teatro Verdi, dove viene fischiata dai simpatizzanti socialisti contrari alla guerra in Libia, e al Politeama Virginia Marini. In quelle occasioni conosce il senatore Teresio Borsalino[5], proprietario dell’omonima fabbrica di cappelli, con cui inizia una importante relazione, che scatena il pettegolezzo, alimentato in particolare dagli articoli del giornale “L’Idea Nuova”. Malgrado ciò il rapporto si consolida: Gea e Teresio sono “Due anime gemelle”, come scrive di proprio pugno l’imprenditore su una fotografia che li ritrae negli anni Trenta.
Per amore di Borsalino abbandona definitivamente le scene. Gea e Teresio trascorrono le vacanze a Riccione soggiornando a villa Garisenda in via Ponchielli. Nella riviera romagnola sono protagonisti di una vita elegante e spesso ospiti a villa Mussolini insieme al cancelliere Dollfuss e ai conti Pullè.
In seguito, la cantante acquista villa Amalia[6] a Verucchio nel cuore della valle del Marecchia dove passerà il resto della sua vita. La sala principale della villa (detta “delle bandiere”) verrà affrescata negli anni Quaranta dall’amico pittore Marcello Dudovich[7], curatore di diversi manifesti pubblicitari per le due fabbriche Borsalino. All’interno della Tenuta – resa famosa per i vini pregiati[8] da Alessandro Gavazzi, nipote di Gea – si possono ammirare il capo della diva scolpito sull’arco di ingresso, con acconciatura dei capelli che ricorda la pettinatura di scena e un busto nel cortile che la ritrae in età matura.
Il matrimonio tra Gea e Teresio verrà celebrato soltanto il 3 settembre 1933, dopo quasi due decenni di frequentazioni, nel momento in cui Gea rimane vedova del primo marito, il nobile bolognese Pier Giovanni Dragoni di Bagnacavallo, da cui aveva avuto la figlia Piera.
La famiglia Borsalino non vede di buon occhio lo sposalizio e diserta la cerimonia. Al riguardo, ricorda Emma Camagna: “Cercarono anche di fare avere delle grane a mio padre che, da buon giornalista, aveva pubblicato su La Stampa in esclusiva mondiale la partecipazione di nozze di cui era venuto in possesso Dio solo sa come. Un apparecchio cinematografico riprese tutte le fasi della cerimonia ma l’auto che trasportava le preziose riprese misteriosamente fu investita da un altrettanto misterioso automobilista e la pellicola non fu mai trovata”.[9]
Alla morte di Teresio, Gea si ritira nella casa di Villa Verucchi. Ritorna sulle scene nel 1957 come concorrente in una trasmissione radiofonica, “La Famiglia dell’anno” rappresentando la categoria delle nonne dell’Emilia-Romagna e aggiudicandosi il premio “Il Caminetto d’oro”. La musa di Teresio Borsalino si spegne il 7 ottobre 1961.
[1] Nel libro di Alberto Ballerino, “Borsalino Storia Emozione”, edizioni il Piccolo, 2018, il capitolo VII è interamente dedicato a Gea della Garisenda. La Pro Loco “G. Borsalino” di Pecetto di Valenza ha organizzato dal 22 al 30 marzo 2014 la mostra “Borsalino nell’arte” – “Gea della Garisenda Musa di Borsalino”.
[2] Nel 1908 Gea è al Teatro Costanzi di Roma come principessa Cesira-Bettina ne La Mascotte di Edmond Audran, poi Simona/Maria ne I moschettieri al convento di Louis Varney, Sibilia ne Il crisantemo bianco di Howard Talbot, Mimosa San in La geisha di Sidney Jones e Lionel Monckton, Chandra Nil ne La luna azzurra di Talbot e Paul Rubens e, infine, Modestina ne Il nido delle rondini di Henry Herblay.
[3] Soprannome fortunato quello creato dal Vate, sebbene Alessandra Drudi non fosse di Bologna.
[4] Versi scritti da Giovanni Corvetto (giornalista di cronaca giudiziaria de “La Stampa”di Torino).
[1] Teresio Giuseppe Lazzaro Borsalino (Alessandria, 1 aprile 1867 – Alessandria, 29 marzo 1939), figlio del noto Giuseppe fondatore della fabbrica di cappelli, continua l’attività paterna arrivando a produrre sino a due milioni di cappelli ogni anno, dei quali circa la metà destinati all’esportazione. Una parte cospicua del suo patrimonio personale viene utilizzato per opere filantropiche, tra le quali il sanatorio Vittorio Emanuele III, l’acquedotto di Alessandria, il rifacimento del sistema fognario cittadino e la costruzione di un ospizio per donne anziane o minorate donato all’opera “Divina provvidenza”.
[6] Carolina Amalia di Brunswick sposa nel 1795 Giorgio di Galles, allora principe reggente di Gran Bretagna, futuro sovrano con il nome di Giorgio IV. I coniugi conducono vite separate e Amalia si trasferisce in Italia, dove acquista una splendida tenuta sulle colline riminesi convivendo more uxorio con Bartolomeo Pergami. Per la sua condotta immorale viene sottoposta a una commissione d’inchiesta. Giunto il momento di essere incoronata regina a Westminster, trova le porte sbarrate per ordine del suo consorte. Poche settimane dopo viene trovata morta, probabilmente consumata dal dolore. La villa verrà chiamata con il suo secondo nome dall’amante italiano a cui l’aveva donata.
[7] Marcello Dudovich (Trieste, 21 marzo 1878 – Milano, 31 marzo 1962) è considerato uno dei padri del moderno cartellonismo pubblicitario italiano.
[8] Gea della Garisenda è oggi il nome di un vino rosso frizzante della tenuta Amalia, prodotto con uve di Valmarecchia.
[9] Emma Camagna, La Stampa, 18 aprile 2017.