L’incontro [ALlibri]

A cura di Angelo Marenzana

 

In occasione della presentazione a Rionero in Vulture del mio ultimo romanzo, Il delitto del fascista Nuvola Nera, ho avuto il piacere di trascorrere un fine settimana avvolto dalla cordialità e dall’accoglienza di diversi amici lucani. L’evento ha suscitato un grande interesse tra il pubblico della Biblioteca Civica, struttura comunale intitolata a Giustino Fortunato e ricca di un patrimonio librario ben conservato. Nativo del luogo, Fortunato fu eletto prima deputato e successivamente senatore del Regno d’Italia. Da economista studiò i problemi sociali del sud dopo l’unificazione d’Italia oltre ad essere un convinto meridionalista, attestandosi come figura di rilievo nell’ambito della politica liberale nazionale. Come piccolo ringraziamento per quanto conosciuto nelle poce ore trascorse a Rionero ho scelto di pubblicare un racconto dell’amico Massimo Pallottino, L’incontro, una breve storia tra atmosfere lucane e ricordi giovanili.

Pallottino è uno scrittore nato e cresciuto nel piccolo comune e già noto ad un ben più ampio pubblico con i suoi romanzi editi dalla casa editrice Pequod (Io aspetto nel buio del 2006 e Un rebus per uccidere del 2010)

 

 

 

L’INCONTRO

 

di Massimo Pallottino

 

Il caso ha voluto che una mattina dei primi di settembre Giovanni e Furio s’incontrassero. Non succedeva da quarant’anni. Quel giorno il cielo era azzurro, la luce, particolare. Un fascio di raggi obliquo, leggero.

La vita scorre in fretta e niente lascia immutato. Anche i ricordi di oggi non sono più quelli di una volta – anche la nostalgia non è più quella di una volta, come dice la Yourcenar. Questo pensa Giovanni nel momento in cui lo vede. Furio siede nello scompartimento centrale del treno diretto a Potenza. È intento a rovistare dentro una borsa di pelle alla ricerca di qualcosa. Giovanni vi è salito alla stazione di Rionero. Saluta per primo il suo vecchio compagno di scuola. “Ciao Furio”, –  sorride timidamente, sostando imbarazzato al centro del corridoio di passaggio . “Ciao Giovanni, che te ne fai da queste parti? Siediti qui, il posto è libero.”  D’un tratto riaffiora il brutto ricordo di quel pugno che Furio gli aveva mollato e non era riuscito a schivare. Lo aveva colpito con violenza sul naso e lui aveva vacillato sulle gambe, subito dopo accasciandosi lungo disteso tra i banchi. “Fin dal quarto ginnasio non ci eravamo presi molto, e mai come in quella circostanza me ne resi conto”, – pensa Giovanni.

Frequentavano entrambi l’ultimo anno del liceo classico quando ebbero questo aspro litigio. Era l’ora della ricreazione: oltre a loro in aula non c’era nessuno.

Giovanni adesso ricostruisce mentalmente che tutto era partito da una chiacchierata sportiva all’indomani della finale degli Internazionali d’Italia di tennis del 1978 tra Borg e Panatta, dopodiché il buio più totale…la nebulosa del suo ricordo squarciata dal flashback di quel cazzotto che lo aveva steso nel giro di pochissimo.

Furio era il più bravo della classe, ma risultava maledettamente odioso perché non stava mai zitto. Aveva ogni volta qualcosa da dire di più intelligente rispetto agli altri, pretendeva di saperne sempre di più, e così anche sul tennis e i campioni dell’epoca, di cui Giovanni era un conoscitore appassionato. “Ne è trascorso di tempo da quando ci siamo persi di vista”, – prosegue Furio con un certo entusiasmo.

”Abbiamo abitato frattanto mondi diversi. Ma è la vita a passare. La vita ci prende per mano, poi..chissà..”, – risponde Giovanni. “Come siamo cambiati io e lui”, – riflette tra sé. Giovanni è convinto che il tempo non esista – un’entità astratta, né più né meno. Pertanto nei suoi discorsi è solito dire che “è la vita che passa”.

Adesso siedono l’uno di fronte all’altro. Giovanni lo guarda negli occhi, la sua faccia cattiva stravolta dall’ira mentre gli assestava quel pugno è un’immagine fissa davanti a sé. Sono da soli proprio come quella volta, rimugina Giovanni. Un lungo silenzio. Giovanni preferisce adesso tacere per starsene appartato coi suoi pensieri. Nel frattempo guarda fuori dal finestrino. Il Monte Vulture che si staglia lontano nell’azzurro del cielo gli fa vedere e riscoprire la bellezza multiforme della vita che il suo sguardo il più delle volte non coglie. È un vero e proprio senso di pacificazione col mondo che gli suscita questa veduta della terra lucana attraverso il finestrino della storica Littorina, sempre quella, con lo stesso nome di quarant’anni fa. Ed è per questo che ogni anno in estate, di ritorno dalla Germania a Rionero, il suo paese nativo, lui ripercorre la tratta del treno fino a Potenza. Le prime note di “Sweet Thing” di David Bowie cominciano a scorrere nella sua mente per una sorta di sinestesia, e subito ricorda quella volta a Monticchio in cui  riconobbe Bowie; era fermo a pochi passi dalla riva del Lago Piccolo e guardava il panorama. Che felicità. Un ricordo indelebile. Il passato che ritorna e ti sta incollato alle spalle come una lunga ombra, pensa lui.

“Chi l’avrebbe mai detto che proprio su questo treno..”.

“Sì, chi l’avrebbe mai detto”, – lo interrompe Giovanni, distolto dal silenzio appartato dei suoi pensieri. Ascolta intanto il lento sferragliare delle carrozze, un rumore di sottofondo che non disturba e lo mantiene piacevolmente vigile. “Allora che mi racconti? Ti sei poi laureato?”. Furio si sforza di assumere un’intonazione cordiale, cerca così di accorciare la distanza che ancora percepisce tra loro.

“Mi ero iscritto a filosofia, ma a quattro esami dalla laurea ho mollato. A quel punto mi sono trasferito in Germania per cercare lavoro. Oggi vivo a Stoccarda. Ho uno studio fotografico e con questo riesco a tirare avanti.”

Furio ritiene che non sia opportuno chiedergli il motivo del suo abbandono universitario. Lo incuriosisce però soffermarsi su un punto. ”Ti piace la fotografia”.

“Mi affascina. Trovo che la fotografia sia un formidabile mezzo per poter osservare le cose. E quando uso il grandangolo ho la sensazione di osservarle da più punti di vista”.

“Io dirigo il reparto di radiologia dell’ospedale di Potenza. Leggo le radiografie, stilo le diagnosi, ma in un certo senso mi sembra di non riuscire a osservare ciò che mi passa sotto gli occhi: a osservarlo da più punti di vista, come dici tu”.

Giovanni avverte come se quella distanza che ha avvertito fin da subito sia come una sorta d’insormontabile barriera che si frappone tra loro. Le vite di entrambi si sono divise, o, più probabilmente, non si sono mai incontrate, pensa, e si gira di nuovo verso il finestrino, fortemente attratto dal paesaggio. Il convoglio poco dopo fa sosta alla stazione di Castel Lagopesole. Era lì, all’interno del Castello Federiciano, che lui aveva ascoltato grandi jazzisti di fama internazionale. La facciata della vecchia stazione e il vivo ricordo che adesso accompagna la musica, nella testa gli riecheggia un passaggio di un brano di Antonello Salis, ecco, è proprio l’acustica del ricordo che lo riempie di gioia.

È passata una vita, e tuttavia percepisce la distanza come accorciata, in verità nei ricordi felici qualsiasi distanza sembra ridursi a un solo istante. E tutto ciò non dipende dal trascorrere del tempo – il tempo che per lui non esiste -, piuttosto da un flusso scandito da un movimento interiore che talvolta allunga o abbrevia le distanze, osserva Giovanni tra sé.

Il treno riparte. “Io non ho lasciato Rionero.”, – dice Furio, “Ho sposato Cecilia e abbiamo due figlie”. Ed era stata proprio lei, la bruna e avvenente Cecilia, il motivo scatenante di quel furioso litigio… quella finale di tennis era stata in effetti solo il pretesto usato da Furio per metterla poi sul piano della violenza fisica, perché entrambi ne erano innamorati e in questo modo gli aveva fatto intendere di starsene alla larga da lei, ricorda Giovanni, facendo solo ora chiarezza nel suo ricordo. Una leggera foschia ammanta di un grigio perla le colline del Vulture, ma va bene lo stesso, mormora tra sé Giovanni. La magia di questo breve viaggio del resto è immutata. Da quando ha messo piede sul treno e cominciato a contemplare il paesaggio – la geografia affascinante della Lucania è disegnata da una linea sinuosa di colline e montagne distinguibili dal loro caratteristico verde e marrone impressi indelebilmente nella sua memoria – sente che la vita, al di là del suo ineluttabile dolore, emana una particolare bellezza.

“Sei ancora appassionato di letteratura?”, – chiede Furio a bruciapelo. Giovanni dice che ha pubblicato due libri di racconti per un piccolo editore di Hannover. “È l’amore per la scrittura che nel corso degli anni non mi ha abbandonato”, – conclude con tono pacato.

“La natura matrigna nella poetica leopardiana, ricordo che del poeta era soprattutto questo che ti affascinava“, – aggiunge Furio dopo una breve pausa.

Giovanni annuisce. Vorrebbe parlargli di quando, dopo aver riletto l’Infinito per l’ennesima volta, mosso da un irrefrenabile trasporto aveva cominciato il suo primo racconto. Ma adesso si accorge che non è più possibile, perché sono arrivati a destinazione.

“Io vado al lavoro, e tu?”, – chiede Furio di lì a poco mentre s’incamminano lungo la banchina. “Io aspetto il treno per tornare a Rionero. A settembre, di solito, lo faccio ogni giorno questo doppio percorso. In un certo senso, è questa la mia vacanza”.

Furio ha una reazione di sorpresa, che dissimula con un sorrisetto di circostanza, poi riprende:”La mattina non vedo l’ora che passi il viaggio. E così impiego tutto il tempo a leggere o, se non ho voglia, me ne sto con gli occhi chiusi. Sai, ho perso l’abitudine di guardare fuori dal finestrino del treno. Il guardare il paesaggio lo trovo ormai come un esercizio ripetitivo, qualcosa di una noia mortale. Io e te, piuttosto, potremmo fare un’escursione sul Vulture, quella sì. E magari spingerci fin dove un tempo era in funzione la funivia che passava sui laghi di Monticchio”, – dice Furio.

“È un’idea fantastica”.

“Tuttavia, mi prende la malinconia al pensiero di arrivare fin lì. La funivia in uno stato di completo abbandono, i ricordi della giovinezza svaniti nel nulla.”, – aggiunge Furio.

“E perché? Ti ripeto che per me sarebbe un’idea fantastica”. Giovanni si dice che l’aver imparato a osservare le cose da molteplici punti di vista ha potenziato la sua immaginazione. E questa, pensa, riesce molte volte a colmare il vuoto dei ricordi. Anche di quelli svaniti nel nulla.