di Danilo Arona
Qualche giorno fa ho messo mano a un racconto che entra in modo “scorretto” in un libro piuttosto famoso per riscrivere parti oscure di quella vicenda attraverso gli occhi di un personaggio minore. Se il racconto è riuscito bene – a me pare di sì, ma gli scrittori quasi mai sono imparziali con le proprie opere -, il merito è anche di chi scrisse il romanzo di partenza, romanziere americano morto nel ’95. Va da sé che si tratta di una macro-citazione dichiarata e intenzionale, ma nutro qualche dubbio sulla legittimità giuridica dell’operazione perché sono trascorsi solo 24 anni dalla morte dell’autore, mentre in realtà ne occorrono 70 per mettere mano gratis a prodotti di altrui cervelli. È ovvio che siamo fiduciosi, anzi certi, che nessuno sull’altra faccia della Terra leggerà mai le mie poche cartelle che poi alla fine vogliono essere solo un piccolo omaggio. Però la problematica interattiva rimane. E la domanda finale è: a chi appartiene “di più” l’opera derivata per ibridazione?
Essendo io un vecchio residuato della critica mi sono di tanto in tanto cimentato con queste operazioni di ibridazione. L’ho fatto ad esempio più di una volta con Henry James, di cui ho scritto qualche appendice al celeberrimo Giro di vite, che resta tuttora una delle mie ossessioni letterarie – da anni ad esempio progetto di scrivere la storia del turpe Peter Quint prima che andasse a fare il giardiniere a Bly House. (ma state tranquilli, non accadrà). E sto comunque in buona compagnia: nel mare magnum, Michael Hasting con The Nightcomers ha scritto proprio il prequel di Giro di vite, Amos Poe e Robert McCammon hanno prodotto altrettanti sequel de Il crollo della casa degli Usher, Valerie Martin con La governante del dottor Jekyll, etc…, l’elenco sarebbe ancora molto lungo, e qui non è sede, anche se mi ritrovo particolarmente appassionato di prolungamenti di altrui fantasie. Il dato di fatto è che l’abbondanza di saccheggi letterari è direttamente proporzionale alla succitata legge dei 70 anni: in soldoni (perché di quelli stiamo parlando…), se John Logan in Penny Dreadful ha fatto incetta spudorata di superstar del gotico vittoriano, è perché sostanzialmente non esistevano diritti da pagare. E soprattutto c’era da divertirsi, tipo far uccidere un vecchio Van Helsing, creato da Bram Stoker, dal mostro di Frankenstein, inventato da Mary Shelley.
Il lungo pistolotto vorrebbe introdurre per paradosso la dialettica comparazione tra l’originale Suspiria di Argento e quello di Guadagnino, tecnicamente un remake anche se, tutti lo hanno visto, la definizione va alquanto stretta. Ma Dario Argento è ben vivo e Guadagnino si è comperato i diritti sui personaggi (“una paccata di soldi” ha dichiarato Daria Nicolodi in un’intervista, ma giustamente non se ne sa nulla), per ripercorrere la trama nelle linee essenziali ibridando alla grande secondo il suo gusto e la sua visione artistica: le diverse ambientazioni temporali e geografiche, l’interscambio di segno tra Storia (il 1977 a Berlino) e horror, più personaggi, più streghe, terrorismo, i fantasmi del nazismo, etc – chi ha visto il film, sa già tutto.
Il fatto è che, se ci poniamo la domanda dell’inizio, ovvero quanto rimane dell’autore primario nel risultato finale, scopriamo che in questo caso non resta quasi nulla. Con il grottesco sospetto che, quando non costano, si ha comunque un reverenziale rispetto verso gli autori che non sono più; se invece hai pagato i diritti cari e salati, l’autore può anche sparire, anzi forse deve farlo – non l’ha fatto Kubrick con Stephen King quando ha realizzato il suo Shining?
Non sono qui per sentenziare se sia giusto o sbagliato. Ma a fare l’ovvia constatazione che in Suspiria ci restano solo più il titolo, l’esile linea narrativa di una ballerina che raggiunge una misteriosa scuola di danza e i nomi propri di qualche personaggio. Questo si è comperato Guadagnino con lo scopo di realizzare il sogno di tanti spettatori dopo la parola “fine”, ovvero “questo film io l’avrei fatto così!”. Solo che Guadagnino, oltre a essere un fan dichiarato, non è uno spettatore qualsiasi, bensì uno tra i più geniali registi della sua generazione. Autore tout court e non di genere (la filmografia ne fa fede), il suo approccio è “alto”, nobile e mira a veicolare significati complessi e di peso universale. Come disse Paco Taibo II, usare il genere per andare oltre – e di solito chi lo fa, un po’ se ne frega delle regole del genere.
Il risultato – secondo me – è un film affascinante che solletica molto più le sinapsi che le viscere al contrario del modello di Argento. E capita quasi sempre così quando, semplificando, un autore “alto”, mainstream, entra nel genere, in qualche landa dell’impero considerato ancora materia bassa, per farlo suo e per fare altro. È successo più volte nella storia del cinema: il già citato Shining, Robert Altman con Images, Coppola con il suo Dracula, Boorman, Skolimowski, etc…, ovvero quei famosi “oggetti isolati” di cui ho scritto qui http://www.horror.it/a/2014/06/quando-lhorror-e-dautore/, destinati a scontentare parecchi fan del genere e teorizzatori del soggetto violato, e a lasciare nel contempo perplessi gli spettatori, sempre semplificando, “colti”.
Da queste diatribe, facciamocene una ragione, non si esce mai. Ma è il bello di arti così intimamente collegate quali il cinema e la scrittura. E il Suspiria di Guadagnino si porta dentro tanta ricchezza storica e letteraria da rendere necessaria una o più visioni dopo la prima. Può essere un pregio o un difetto, ma in questi tempi oscuri di ignoranza dilagante è meglio mirare bene al cervello, magari si percepiscono segnali di elettroencefalogramma attivo.
Sul plot e sulle scene clou non vi intrattengo. Molti lo hanno già fatto e in rete e su carta stampata – io mi limito a consigliarvi la bella e asciutta analisi di Benedetta Pallavidino, che trovate qui: www.artapartofculture.net/2019/01/25/suspiria-la-ricercatezza-e-la-potenza-nel-remake-di-luca-guadagnino,ricordando al mondo che la mitologia delle Tre Madri, inventata da Thomas De Quincey nel libro Suspiria De Profundis del 1845[1], sta già partorendo interessanti produzioni a latere che vanno ad arricchire la saga, quali La Terza Madre – Le origini, il ritorno di Mirella Luce. E a ricordare, per dare un po’ di giustizia al talento di chi ci ha lavorato, un film del 1989, Black Cat (De Profundis) diretto da Luigi Cozzi. Sempre un po’ irriso e dimenticato, ma si tratta in verità di un capitolo spurio – potremmo dire spin-off – della Trilogia delle Madri, perché parte da una sceneggiatura di Daria Nicolodi che è poi la “Madre” depositaria di tanto immaginario ovviamente femmineo.
Come ricorda con il consueto rigore Davide Pulici http://www.nocturno.it/movie/black-cat-de-profundis/, “la storia gira attorno a un regista e alla sua donna che si mettono in testa di portare sullo schermo la faccenda dequinceyana dei Suspiria De profundis, aprendo così il fondo di un pozzo nero da cui sarebbero fuoriusciti, oltre che orrori inenarrabili, i rigurgiti della vicenda autobiografica di Dario e Daria. Cozzi, che non vuole inimicarsi Argento, parte da quella base e va – come non poteva non essere – per i fatti suoi, a tessere una trama che prende spunti dalla sceneggiatura della Nicolodi, ci aggiunge effettistica speciale sci-fi a manetta, autocitazioni da Contamination (Karina Huff esplode dall’interno in una sequenza gorissima e molto bella), obbedisce ai desiderata del produttore subentrato nell’operazione, Golan Globus, che vorrebbe fare un Gatto nero, facendo camminare un micio qua e là per i set e infine frulla tutto quanto per ottenere una salsa alla Philip Dick (emulsionandola ben bene con Scanner e Fury): siamo sogni dentro altri sogni, viviamo una realtà a scatole cinesi, i mondi sono come matrioske. Beh: funziona, nonostante a un certo punto il filo logico si disfi e si spanda a mo’ di arabesco. Funziona la storia di Urbano Barberini che con il suo sceneggiatore Maurizio Fardo si è messo in testa di dare un seguito a Suspiria e per questo va a disseppellire Levana, che dalla resurrezione metaforica sullo schermo passa alla resurrezione nella realtà: perché De Quincey scrisse il suo testo – racconta l’occultista Karina Huff – ispirandosi alla figura di una potentissima strega morta nel 1300, che mentre i nostri mettono in moto i preparativi per il film, scardina una vecchia tomba impolverata e, tra tagli di luci acide modello Inferno, torna all’aria aperta, col suo viso che è un alveare di pustole, gli artigli adunchi e il corpo che sparge vermi e serpenti all’intorno.”
Da riscoprire, se volete, su YouTube.
[1] Nella fattispecie il capitolo conclusivo, dal titolo Levana e le nostre signore del dolore, dove lo scrittore immaginava tre controparti – i Dolori – per Lucina, la dea romana della nascita: la Mater Lacrimarum (La Madre delle lacrime), la Mater Suspiriorum (La Madre dei Sospiri) e la Mater Tenebrarum (La Madre delle Tenebre). Dario Argento ha quindi preso l’idea e l’ha trasformata in tre versioni horror soprannaturali, in ognuna delle quali una Madre diventava invero una strega con incredibili poteri. Non solo; a quanto ha raccontato Daria Nicolodi – all’epoca ancora moglie di Dario e co-autrice della sceneggiatura di Suspiria -, ha influito sul progetto iniziale anche un racconto di sua nonna, la quale sosteneva di essere fuggita da un’accademia di musica tedesca poiché aveva scoperto essere retta da un manipolo di streghe, che praticavano le arti magiche. (Fonte: Le Tre Madri nella trilogia di Dario Argento: una mitologia tutta italiana, di Sabrina Crivelli, www.ilcineocchio.it/cinema/dossier-tre-madri-trilogia-film-dario-argento/)