di Danilo Arona
Servirsi della visione di un film per entrare nelle pagine, a loro modo misteriose, di un libro affascinante. Capita, spesso quasi inconsapevolmente, più di quanto si pensi. A me è di nuovo successo e ancora con Francesca Caldiani.
Ma andiamo per ordine. Quando lessi un po’ di tempo fa Twizel – L’altra parte (La Corte Editore), per strane vie la chiave d’ingresso fu Dunkirk di Christopher Nolan, film che ha diviso come pochi critica e pubblico. Non sono qui per sentenziare – a me in ogni caso piacque assai -, quanto per ribadire quanto scrissi nel Superstite n° 359, ovvero:
«… siamo al cospetto di quell’idea di cinema, tipica di Nolan, che ti immerge in una realtà – che nel caso in questione è Storia – nella quale sei costretto a confrontarti con l’Altra Parte. Non crediate neppure per un secondo se qualcuno, privo del dono di Pindaro, vi dice che Dunkirk è un film di guerra. Lo è nella misura in cui dobbiamo incasellarlo da qualche parte nel magazzino della merce, ma tanta esperienza totale e travolgente su ogni piano del fruibile è la prova inconfutabile che i veri, grandi artisti visionari sono in grado di prenderti per i cenci e cacciarti dentro, appunto, “l’Altra Parte” per farti comprendere meglio l’apparente concretezza in cui vivi immerso e alla quale non esiste alternativa. I tempi, i luoghi, le scansioni, nel mondo di Nolan non sono esattamente quello che dovrebbero essere. E persino i suoni provengono da un’Altra Parte. La Twilight Zone dell’incubo e dell’inconscio.»
E più in là, abbandonando Nolan per Caldiani: «… alla stregua di certi film visti di recente – uno fra tutti, Enemy di Villeneuve e, certo, Dunkirk -, opere le cui pertinenze di genere un po’ sempre sfuggono (e meno male dal mio punto di vista), Twizel è un lavoro “psichico” che richiede al lettore da pagina 79 in poi uno sforzo mentale per “entrare” al meglio nella strabiliante dinamica per la quale l’Altra Parte diventa lo schermo percepito di un passato che ritorna e che non è quello che i protagonisti si ricordano… Se questo diventa manipolabile o modificabile, la prima patologia – ammesso che sia tale – può essere una percezione non più oggettiva, con allucinazioni e visioni di “altre parti” esistenti sotto il velo dell’apparente reale.»
In Twizel – Reverso, sempre per La Corte, senza ovviamente sbilanciarsi, i protagonisti devono (dovrebbero) abbandonare l’Altra Parte per tornare, il più indenni possibile, a questa. Un viaggio di ritorno in cui entrano ulteriormente in crisi percezioni, ricordi e la stessa memoria del lettore. Il disorientamento su quel che sono hic et nunc nella vicenda che tentiamo di fare nostra è il formidabile segno che caratterizza l’approccio narrativo di Reverso. Ci sentiamo spaesati perché, ammesso e mediamente non concesso che si riescano a leggere 235 pagine in un’unica sessione, non abbiamo quasi mai l’esatta percezione del dove e del quando complice il meccanismo narrativo sul quale è convenienza tacere. È un twist grandioso, una vera sfida che Francesca da par suo vince perché il vortice, anche quello del lago Pukaki, Nuova Zelanda, ti butta dentro e decidi di riemergerne solo all’ultima pagina dei ringraziamenti. E anche in questo caso necessito ancora – ho dei limiti, me ne rendo conto – del filtro analogico di un altro, grande e recente film,ovvero Ready Player One di Steven Spielberg, definito da Roy Menarini “il film più pop che si possa immaginare e al contempo quello più profondamente teorico degli ultimi anni”.
Come ricorderete, in Ready Player One, l’umanità impoverita e regredita trova rifugio e appagamento soltanto in Oasis, una clamorosa realtà virtuale dove non solo è stipato tutto l’immaginario iconico, ma pure un easter egg, un livello segreto che consente a chi lo trova di ottenerne e gestirne il controllo. A un certo punto, il gruppo dei protagonisti si ritrova proiettato nell’universo del kubrickiano Shining, transitando attraverso l’ingresso del cinema Overlook e riprendendo da parte di Spielberg intere sequenze del film con frammenti depositati nella memoria collettiva quali le gemelline Grady, la cascata di sangue, la macchina da scrivere di Jack Torrance, la stanza 237 e l’orrida Lady in the Water, la Sala d’Oro, il Labirinto di Siepi e altro ancora.
La sintonia, per quanto casuale, appare evidente e significativa. La realtà percepita, lungi dall’essere un’esperienza casuale, è composta di memorie manipolabili e stratificate. E in un livello segreto, rinchiuso in uno strato, un creatore – nel caso di Reverso è una creatrice che si chiama Lauren – provvede alla produzione di “ricordi fasulli” alla stregua di un Jack impazzito per il quale il mattino ha sempre l’oro in bocca. Certo, per Reverso si potrebbero tirare in ballo non solo Kubrick, Spielberg o King, ma certamente Philip K. Dick e pure David Lynch; il vortex mnemonico funziona un po’ come la Rete degli Inconsci e tutti, in un processo collettivo di lettura e rielaborazione, altro non possiamo fare che divenire spettatori in grado di apportare al Percepito il personale bagaglio mnemonico pur senza riuscirci. Come dice Carly, una delle protagoniste della storia: «È come se ci muovessimo in una realtà che non ci appartiene più. Chiunque stia creando questa scena, noi possiamo solo guardare.»
Raramente un libro, per il quale ogni etichetta di apparente riferimento si dimostra infondata, riesce come Twizel – Reverso a porre domande tanto stringenti e pertinenti sull’apparente Concretezza della realtà che ci circonda. E forse per la prima volta trovo conferma a livello narrativo a una mia personalissima convinzione: da qualche parte sul Pianeta-Specchio in cui viviamo immersi esistono porte d’ingresso. Si può entrare, ma non sempre si esce. Verrebbe da chiedere a Francesca Caldiani: ma che cosa hai visto, realmente laggiù, in Nuova Zelanda?