“Gli infallibilisti sono coloro che son convinti di quella che Popper chiamava «teoria della verità manifesta», sono persone terribilmente noiose perché, di qualunque tema si parli «l’avevano già detto molto tempo prima».
G.Bosetti, Dal villaggio all’asilo d’infanzia (globale), in K. Popper, Cattiva maestra televisione, Marsilio, Venezia 2002.
I lettori del quotidiano La Stampa conoscono certamente l’imperdibile rubrica domenicale di Piero Bottino “Posso sbagliarmi”. Pochi, forse, sapranno che quelle quattro parole “I may be wrong” (potrei sbagliarmi) quelle che gli infallibilisti “dimenticano sempre di dire, all’inizio o alla fine di un discorso”, sono un tratto inconfondibile della personalità del grande filosofo liberale Karl Popper, parole che egli “pronunciava spesso, anche prima di farne un elemento portante, con il falsificazionismo, delle sue teorie scientifiche”. Poiché, come scrive Massimo Baldini nella sua Introduzione alla raccolta di saggi di Popper “Il gioco della scienza” [Armando Editore, Roma 1977], “nella vita come nella scienza quanto più si tenta tanto più si impara anche se si fallisce ogni volta”, sono certo che anche questa volta mi sbaglierò: lunga vita al «governicchio» di Enrico Letta.
Il mio primo errore è stato certamente quello di aver creduto che Romano Prodi, l’unico rappresentante del centrosinistra ad aver sconfitto per ben due volte Berlusconi in libere elezioni, avrebbe potuto, qualora fosse stato eletto Presidente della Repubblica, provocare lo sfaldamento del centrodestra, liberando finalmente l’Italia dal fardello che la opprime e che l’ha resa lo zimbello dell’Europa e del mondo occidentale. Errore. Per la terza volta, i «grandi strateghi» della sinistra divisa (e non mi riferisco necessariamente a quelli del PD) hanno pervicacemente preferito riconsegnare il paese nelle mani di Berlusconi e dei suoi accoliti piduisti, assecondando con ciò il disegno perseguito negli ultimi anni dal Presidente Napolitano di una assai improbabile «pacificazione». Dal giorno dopo aver votato la fiducia a Enrico Letta, i falchi del PDL hanno infatti iniziato ad inviare i loro segnali di fumo: “Subito l’eliminazione dell’IMU oppure il Governo cade”. Non che qualche voce si sia levata subito a sinistra chiedendo l’immediata abrogazione della legge elettorale che ha portato a questa situazione, disinnescando in tal modo il ricatto di nuove elezioni a breve con il «Porcellum». Per fortuna ci ha pensato Giovanni Sartori scrivendo sul Corriere della Sera del 1° maggio che “volendo, una nuova legge elettorale può essere varata in una settimana. Tutto sta in quel «volendo»”. Già.
Il fatto è che non solo i «grandi strateghi» della sinistra divisa hanno resuscitato per la quarta volta un kaimano ferito, ma lo hanno rimesso in gioco appendendosi per di più ad un cappio mortale: qualora infatti venisse abolita la piccola patrimoniale dell’IMU, dopo avere ottenuto ciò che ha promesso in campagna elettorale Berlusconi potrebbe chiedere di tornare subito alle elezioni con il vento a favore e con un PD alle corde; in caso contrario potrebbe far cadere il Governo (dando la colpa alla sinistra) per poi andare a nuove elezioni con quella legge elettorale da lui espressamente ideata per indebolire la seconda vittoria elettorale di Prodi e che potrebbe fargli riottenere una maggioranza bulgara sia alla Camera che al Senato.
Il secondo errore (ed è qui che con ogni probabilità mi sbaglio) è quello di aver sempre creduto che la «pacificazione» tra cattolici, liberali, comunisti e socialisti che avevano combattuto assieme nella Resistenza fosse il modo di celebrare la liberazione dell’Italia dal fascismo, gestendo unitariamente la fase politica che ha portato alle elezioni del 2 giugno 1946, nelle quali gli italiani hanno votato per l’elezione dell’Assemblea Costituente in vista della stesura della nuova Costituzione e per il referendum istituzionale che ha sancito il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica. Evidentemente ho studiato nei libri sbagliati.
Il terzo errore (e qui la memoria mi sorregge poiché quegli anni li ho vissuti), è quello di aver sempre creduto che la «pacificazione» tra democristiani e comunisti, che ha comportato tra l’altro il sacrificio di Aldo Moro, facesse seguito a quel drammatico periodo in cui le “brigate rosse” catturavano giudici e generali americani, azzoppavano e uccidevano manager delle aziende pubbliche e private e un folto stuolo di professori universitari, tutti rei di collaborazionismo con “lo stato imperialista delle multinazionali”. Anche in questo caso, così come nei precedenti, credevo, evidentemente sbagliandomi, che la «pacificazione» stesse a sancire l’esito di una battaglia comune contro un nemico esterno. Con ogni probabilità i miei ricordi sono sbiaditi, giacché parto dal presupposto che I may be wrong. Diversamente dovrei pensare che si sono offuscati quelli di quei «grandi strateghi» della sinistra divisa, per i quali il concetto di «pacificazione» sembra essere quello della resa totale nella guerra contro un avversario interno. I «grandi strateghi» della sinistra divisa sono pertanto riusciti nell’impresa che venticinque secoli fa nel suo trattato The Art of War [Hodder Mobius, London 2005] Sun Tzŭ presagiva, ovviamente pensando al presente: “l’atto supremo della guerra è di sottomettere il nemico senza combattere” (traduzione mia, corsivo nell’originale). Io speriamo che questa volta mi sbaglio.