Era un mito della mia adolescenza, ma credo non solo della mia. Ogni tanto la incrocio e mi chiedo quale sia il DNA alieno. Perché mi ricordo bene, quando mi iscrissi in 4° ginnasio al Plana, lei stava quasi ultimando il liceo. Non solo era la più bella in piazza Genova, era la più bella in città. Non poteva nasconderlo, missione impossibile. Bionda modello Bardot, occhioni di acqua marina e fisico da crisi d’asma. La numero 1, fine. Ogni epoca, ogni generazione ha la sua numero 1. Quella che, oltre all’indiscutibile bellezza, irradia dallo sguardo e dagli occhi un’indescrivibile luce di arrogante e consapevole fierezza.
Io sono stato fortunato. Sono nato nel ’50 e ho avuto l’età giusta nel ’65 e nel ’68. Anni peculiari. I cambiamenti, i capelli lunghi, la musica, la politica. E il Plana, alveo di memorie che ancora mi danno i brividi.
Soprattutto i dieci minuti d’intervallo, annunciati dallo scampanellante segnale con la gente che si buttava nei corridoi. Io e il mio compagno di banco – chiamiamolo Enrico, non è il suo vero nome – ci fiondavamo all’esterno unicamente per lumarla. Lei, lumatissima, cambiava sempre postazione con espressione infastidita. La lumammo a ogni intervallo di due anni scolastici. Avevamo 15-16 anni, lei pochi di più. Poi regolarmente lasciò il liceo e nulla fu più come prima. Mentre la storia faceva passi da gigante: scuole occupate, movimenti studenteschi, la paura del futuro. Ogni tanto io la incrociavo, sempre più bella, in centro città. Enrico però diventava sempre più strano. A ogni intervallo era come se la cercasse. Parlava ancora di lei e una volta mi confidò: «So dove abita e ho il suo numero di telefono.»
Enrico peggiorò alla grande. Soprattutto dopo il liceo. Parlava da solo, qualche volta saltava addosso alle ragazzine e lo sguardo denunciava la più insanabile delle malattie mentali. Lo persi di vista, ma purtroppo ci perdemmo quasi tutti di vista. Ognuno, anche la nostra bionda ossessione, aveva imboccato la sua strada.
All’inizio degli anni ’90 ricevetti una telefonata a casa. Lì per lì non capii chi avevo all’altro capo del telefono. Poi lo riconobbi: Enrico, ma più che la sua voce percepivo un suono stridulo e chiocciante, con parole interrotte di tanto in tanto da una risatina alla Freddy Krueger. Sì, mi erano giunte chiacchiere sulla sua sorte che riferivano del suo permanente ricovero in strutture specializzate. Ma si sa, le chiacchiere non hanno fondamento. In ogni caso era lui e quel che diceva pareva il preambolo di un thriller:
«Ehi, Danilo, ti ricordi di lei? Abita sempre in Via Tal dei Tali? Sai, perché io avrei voglia di vederla e di parlarle. Di dirle che in tutti quegli anni che ho passato in ospedale l’unico volto che mi veniva in mente era il suo. Ci ho parlato tante di quelle volte e tante di quelle notti che adesso voglio farlo sul serio. Adesso sì che ce l’ho il coraggio! Dovresti farmi un favore: io qui non ho una guida telefonica. Ma tu ce l’hai. Potresti darmi il suo numero di telefono?»
Annichilii, presi tempo e poi risposi con l’unica verità a disposizione: i suoi dati anagrafici non stavano in elenco. Lui insisteva e io gli risposi, tagliando corto, che avrei fatto il possibile. «Ti richiamerò», il che suonava come una minaccia piuttosto reale dal momento che non mi capacitavo dove Enrico avesse pescato il mio numero di casa, allora non tanto facile da reperire. Quando la comunicazione s’interruppe, fu come se si richiudesse un varco nel flusso del tempo. In bocca avvertivo un sapore sgradevole. Peraltro non si guarisce dalla schizofrenia. Con molta fortuna la si tiene sotto controllo.
Enrico non ha mai più richiamato. Meno male. Però ogni tanto in centro città intravedo lei che sfreccia veloce in auto. Capelli biondi, occhiali neri, bella da starci male.
O da impazzire.