Dio e il boia

Stragecivitella_fermatadi Massimo Torrealta.

18 giugno 1944

 

Il caldo arroventa l’aria e addormenta i cervelli. Nemmeno le correnti che tagliano in due le creste montuose dell’Appennino riescono a mitigare la calura soffocante che ristagna sopra al borgo. Io e Tarzan siamo seduti sul bordo del lavatoio. L’acqua fredda che sgorga dalla sorgente e scorre nella vasca di sasso ci regala qualche istante di refrigerio. Le lenzuola stese tutto attorno odorano di fresco e ci riparano dal sole. Fissiamo la piazza semi deserta. A quest’ora nessuno ha motivo di andarsene in giro. Alle nostre spalle la Chiesa di Santa Maria Assunta, di fronte l’entrata del circolo avvolta dalla penombra del porticato in pietra vecchia di mille anni. Poi sfumano le case del paese, dove vive gente stremata da questa guerra e piegata dalla follia fascista. Tre anziani indifferenti alla temperatura sono seduti accanto la porta del circolo con un bicchiere di rosso in mano e il berretto calato a difendersi dalla luce.

Finisco di arrotolare una sigaretta. Passo la lingua sulla cartina, la infilo tra le labbra, tiro una boccata e sputo alcuni frammenti di tabacco rimasti appiccicati sulla punta della lingua. Tarzan mi ha appena raccontato le ultime novità lasciandomi un vortice di pensieri in testa. Gira voce che l’aviazione alleata è pronta a bombardare anche da queste parti e di stare in allerta perché le bombe non guardano in faccia a nessuno e dove cadono cadono. Mi sta dicendo anche che altri gruppi partigiani si sono formati in zona e stanno cercando contatti. Tarzan è sempre più convinto dell’urgenza di costruire un coordinamento per non disperdere forze ed evitare di correre rischi inutili. Mancano armi, mancano ordini chiari. Manca tutto. Combattiamo d’istinto. Non seguiamo ancora alcun progetto organico. Il nostro obiettivo comune è sbarazzarci dei tedeschi e chiudere la partita con l’occupazione. Ad ogni costo.

Una folata improvvisa trascina pezzi di carta e erba secca. Forse è il primo segnale di un acquazzone in arrivo che potrebbe liberarci da questa cappa afosa. Subito dopo arriva un nugolo di polvere e mosconi. Tarzan volta la testa per proteggersi gli occhi. Li vede in controluce. Camminano verso la piazza. Me li indica senza far gesti con la mano.

“Parliamo del diavolo e spuntano le corna”. Dice Tarzan.

E’ una pattuglia di soldati tedeschi del comando d’occupazione, la divisione Hermann Goring, quella che si è insediata in zona. Sono agli ordini del generale Schmalz.

“Bastardi”. Dico io.

“Sono solo in quattro”. continua lui mentre io getto a terra il mozzicone di sigaretta facendo zampillare gli ultimi rimasugli di brace.

Le voci dei soldati si fanno più distinte. Ridono e parlano con quell’accento ruvido che stride nell’aria come unghie sul vetro.

Restiamo immobili. Il gesto di allontanarci in tutta fretta potrebbe destare sospetti. Meglio non cercarci delle grane.

“Forse fanno una sosta. Con questo sole avranno il cervello che gli cuoce sotto l’elmetto”.

“Le loro armi ci farebbero comodo”. dice Tarzan. “Perché non andiamo a prendercele?”

“Siamo solo in due. Troppo rischioso”. Obietto io, ma dentro di me sono già d’accordo con lui.

“Prima vediamo cosa sono venuti fin qui a fare. Poi proviamo a giocare di sorpresa.“

“Nel retro del circolo ci sono Attila e Cico. Tu vai a parlare con loro, io resto qui fuori.“

“Occhi aperti!” mi risponde Tarzan con una pacca sulla spalla.

Infilo una mano in tasca. Sento il calcio rassicurante della mia Nagant, un modello sovietico che ha fatto anche la guerra di Spagna. Me l’ha regalata un vecchio anarchico di Cornia prima di morire con i polmoni a pezzi.

La tensione incomincia a crescere mano a mano che i militari si avvicinano. Prendo il tabacco e mi arrotolo un’altra sigaretta. Fumare è l’unico modo che conosco per rilassarmi. Nonostante non ci sia anima viva in giro i soldati sembrano non fare caso alla mia presenza. Non mi degnano di uno sguardo. Hanno un’andatura rigida. Nessuno di loro sembra disposto a sfidare il regolamento. Le divise sono abbottonate fin sotto il mento e portano i segni di macchie di polvere ed erba. Trascinano i passi sul selciato. Forse sono reduci da un pattugliamento in montagna, senza sapere che gli stivali non aiutano certo ad arrampicarsi tra i sentieri, in mezzo al terreno accidentato, franoso, a spuntoni di roccia scivolosa e cespugli irti di spine.

Hanno l’aria di uomini storditi dal sole e piegati dalla fatica. Dai loro gesti distratti capisco che la stanchezza ha preso il sopravvento sulla prudenza, e questo può far commettere loro qualche errore.

Tarzan ha visto giusto. Sembrano prede facili.

La pattuglia tedesca si dirige verso il circolo.

Io mi appoggio ad una colonna del porticato. La porta del circolo raschia a terra. Uno dei soldati spinge con maggior forza. Il vetro vibra con un tintinnio prepotente e io mi preparo all’attesa.

Ma è questione di poco e sento esplodere un primo colpo di fucile. I vecchi seduti fuori si alzano di scatto. Le voci si accavallano una sull’altra. Credo che le cose siano sfuggite di mano ai miei compagni. I rumori crescono di intensità. Stringo il calcio della Nagant. Non so che fare. Mi porto avanti di qualche passo. Estraggo la pistola e la punto a terra. Istintivamente aderisco a un’altra colonna in cerca di riparo.

Con il secondo colpo la vetrata del circolo va in frantumi.

I vecchi si buttano a terra.

La porta si spalanca.

Solo tre soldati schizzano in strada muovendosi all’indietro incespicando tra loro. Urlano e sparano all’impazzata. Dall’interno rispondono al fuoco. La linea dell’ingresso segna i confini del campo di battaglia. Uno dei soldati barcolla. Si stringe la pancia con una mano. Si lamenta. Cade. Il suo compagno inciampa dentro di lui. Gli sfugge il fucile e prova a estrarre la pistola.

Ce l’ho sotto tiro. Senza pensare gli sparo contro. Cade sulle ginocchia. Poi finisce a terra pure lui. L’ultimo dei quattro è il più rapido a fuggire via da quel pandemonio. E’ già riuscito ad allontanarsi dal gruppo. E’ piegato in avanti e corre come una lepre. Attraversa la piazza. Gli sparo contro un paio di colpi a braccio teso. Ma la luce mi abbaglia e lui è bravo a evitarli zigzagando con grande agilità a destra e sinistra.

Provo a rincorrerlo. Bisogna bloccarlo a tutti i costi. Se riesce a dare l’allarme al comando l’intero paese corre rischi di una rappresaglia durissima. Ma la paura sembra avergli messo il fuoco al culo. Dietro di me anche Tarzan gli spara una fucilata. Manca anche lui il bersaglio. Io provo a inseguire il tedesco fino all’uscita del paese. Ma senza risultati. Ormai è troppo lontano. Lo sforzo mi brucia i polmoni e la gola. Mi arrendo.

Faccio dietro front e torno dai miei compagni.

 

 

 

trentasei ore dopo

 

E’ una di quelle giornate in cui pensi che vivere è difficile. E non vorresti neanche essere venuto al mondo. E pensi queste due cose solo perché sei convinto che sia immorale cercare la terza soluzione, ovvero, puntare la canna del fucile contro te stesso. Ma ormai sono abituato a vivere tra sbalzi d’umore e pensieri cupi. Mi passo le mani tra i capelli mentre butto giù i piedi dalla branda. Bevo un intruglio di orzo che qualcuno ha il coraggio di chiamare caffè. E’ freddo, amaro, quasi sgradevole. Ho gli occhi stanchi, come se fossero pieni di sabbia.

E’ passato un giorno e mezzo dallo scontro a fuoco con i tedeschi. Al circolo i soldati non hanno voluto mollare le armi e la loro reazione inaspettata è sfuggita dalle mani di Tarzan, Cico e Attila. Un errore che si può trascinare dietro gravi conseguenze. La rappresaglia di tedeschi e fascisti potrebbe essere spietata. Il generale Schmalz  ha lanciato un ultimatum di ventiquattro ore alla popolazione per ottenere i nomi dei partigiani coinvolti nello scontro. Applica la logica della decimazione, per ogni tedesco ucciso si ammazzano dieci italiani. La direttiva Kesserling parla chiaro e lascia piena discrezione al comandante di divisione.

Nella notte i muri delle case sono stati tappezzati da manifesti stampati in tutta fretta con la scritta a caratteri cubitali ACHTUNG BANDITI. Rossi, come il sangue di bue. I soldati stanno rastrellando l’intera zona di Civitella, Cornia e San Pancrazio per cercarci nelle case e nei rifugi dei boschi. Lo sappiamo bene che se ci prendono ci impiccheranno a una pianta con un cartello appeso al collo. Un monito. Corpi a marcire al sole. Un avviso feroce per tutti gli altri: tenere la testa bassa altrimenti la rappresaglia colpirà chiunque.

“Sono come cani affamati” dice Tarzan, quello che fa la spola con il borgo per portare cibo e notizie. “se riescono a metterci le mani addosso di noi non resta più nulla.” E stringe le spalle di Attila, prendendolo da dietro. Attila, l’uomo che sembra invisibile. Non parla mai, non domanda, lui ascolta e sorride sempre, senza mai staccarsi dalla sua arma. Le teniamo vicine a noi come cuccioli da accudire.

“Se reagiscono così vuol dire che hanno paura.” Commenta Cico a mezza voce, e tutti noi scrolliamo la testa per dire che siamo d’accordo. “Ci temono, e questo è un segno della loro debolezza, possiamo diventare un esempio da seguire.”

Nessun civile finora ha collaborato con i tedeschi, nessuno vuole darla vinta a quelle carogne. Quasi tutti hanno preferito lasciare le case e nascondersi in luoghi di fortuna. Tutti temono la rappresaglia come la peste. Sanno che se cadono nelle grinfie dei tedeschi per loro è la fine. Una fine crudele. Ieri circolava anche la voce che i militari volessero usare il fuoco per stanarci. Ma ancora non è successo. In ogni caso, noi siamo nascosti in un posto sicuro, oltre la linea boschiva. E’ la casa dove viveva mia nonna. La maestra della valle. Mi avvicino al pianoforte. Me lo ricordo messo lì da sempre, mezzo traballante e con l’avorio dei tasti ormai ingiallito. Faccio un paio d’accordi stando in piedi, giusto per spezzare la tensione delle dita.

“Io invece suono la grancassa nella banda del paese.” Mi dice Cico. Me lo dice tutte le volte, ma preferisco non farglielo notare. Non ho nemmeno lo spirito per prendere in giro qualcuno. Poi Attila mi dice …dai, suonaci qualcosa. E io incomincio con gli unici accordi che conosco. Faccio i salti mortali tra tasti che mancano e altri scordati.

Vorrei baciare i tuoi capelli neri canticchio a labbra strette, le labbra tue e gli occhi tuoi severi…

E’ stata Annamaria ad insegnarmi gli accordi della romanza quando eravamo fidanzati, con la prospettiva di sposarci appena io avessi finito gli studi. Volevo studiare letteratura, greco e latino, i classici e i moderni senza distinzione alcuna, e fare l’insegnante di Liceo, anche se mia madre mi ripeteva che a insegnare si guadagna poco, e si fa tanta fatica a imparare. Meglio il dottore.

Ma io non mi sentivo portato a sopportare i dolori degli altri.

Come adesso. Mi spaventa l’idea che qualcuno paghi per qualcosa che non ha fatto, che la barbarie dei nostri nemici sputi sulle più elementari regole del diritto, e che punisca innocenti anziché venire da a noi, a guardarci negli occhi, a misurarsi ad armi pari.

“Ci danno un giorno per arrenderci…” dice Tarzan.

“Dobbiamo ripulire l’Europa dallo sterco che Hitler e Mussolini ci hanno rovesciato sopra.” Ci pensa Attila a rompere l’attimo di stasi che segue alle parole di Tarzan. “Viva l’internazionale socialista!”

“E per farlo bisogna prendere la ramazza” replica Cico “e quando si spala merda si finisce sempre per sporcarsi le mani.”

“Ma alla fine si respira aria pulita.”

“Non abbiamo nulla da recriminare” dico io “nulla di cui vergognarci o pentirci, siamo combattenti e abbiamo fatto il nostro dovere fino in fondo.”

Di questo sono convinto fino in fondo e nulla mi farebbe cambiare idea. Così come, per quello che ne so, se uno sceglie di essere comunista, è meglio pensarla come Trotsky e non come Stalin.

Cala ancora una volta il silenzio ad avvolgere dubbi e certezze. Ognuno nudo di fronte a se stesso, pronto a fare i conti con il proprio cuore e i propri pensieri. Tra noi parliamo poco, al massimo si discute politica, dell’amore non si sa cosa dire, ce lo stiamo dimenticando tutti, intrappolati qui dentro senza poterci neanche lontanamente immaginare il corpo o il sorriso di una donna. Quando entriamo in azione ci sorregge l’ideale. Ma questa volta è il nostro senso di umanità che viene messo a dura prova dal ricatto dei macellai nazisti che occupano casa nostra.

“Torno in paese.” Dice. Lo seguo fuori dalla casa. Lui si allontana. Mi soffermo a guardare il profilo dell’Appennino. Sono un fuggitivo e mi  chiedo spesso dove sta la mia libertà, se c’è differenza a vivere braccato guardandomi alle spalle ogni istante, o a stare dietro le sbarre di una galera sotto gli occhi dei secondini. Forse l’unica differenza è che in galera non si sente l’odore aspro del bosco d’inverno come d’estate, l’odore del mattino delle zolle aride e dure, della terra che diventa umida con la notte.  Gli odori e i rumori sono quanto mi resta ancora per cogliere la bellezza di certi angoli della vita.

Lascio scorrere il tempo cercando ordine e certezze nei pensieri, fin quando un rumore mi distrae. Vedo spuntare Tarzan. Arriva di corsa.

“Il comandante tedesco ha sospeso l’ultimatum.” Parla masticando le parole per l’affanno “Non ci sarà più nessuna  rappresaglia, dice che possiamo rientrare tutti nelle nostre case”.

Il boia ci ha ripensato. Anche lui è stanco di morti ammazzati.

 

 

 

29 giugno 1944

 

Quasi tutto il paese è raccolto nella Chiesa dell’Assunta per la celebrazione dei santi Pietro e Paolo. Il parroco ha appena sollevato il calice e le ostie consacrate per impartire la comunione alle donne quando i muri sembrano tremare. Un paio di esplosioni fanno temere un attacco aereo inatteso. Un mormorio indistinto prende il posto delle litanie. Mi faccio largo tra il panico e la sorpresa dei fedeli e le incitazioni alla calma urlate dal parroco. Raggiungo il portale della chiesa. Lo socchiudo e una violenta morsa allo stomaco mi mette a confronto con la realtà più dura da mandare giù. Non ci vuole molto a capire che siamo arrivati alla resa dei conti e che siamo caduti tutti quanti nella trappola tedesca. Ci stanno imprigionando come pesci nella rete.

La strada principale è chiusa da transenne e occupata da camionette, moto e divise tedesche. Si intravede il luccichio di due mitragliatrici al limite della piazza. L’aria è satura di polvere, fumo e di ordini gridati con rabbia. A gruppi di tre, quattro per volta i soldati saltano giù dai camion, si dirigono verso le porte delle case, le sfondano, sparano e danno fuoco a tutto quello che incontrano sui loro passi. Altri ammassano la gente che esce di casa con le braccia alzate. Un fumo nero e denso come pece si sviluppa tra case, vicoli e tetti. La disperazione esce dalla voce delle persone trascinate via. Persone che scappano in strada sapendo di lasciare qualcuno chiuso in cantina o nei solai a soffocare tra le fiamme.

Un sidecar si ferma davanti all’ingresso della chiesa. Il comandante tedesco scende con calma studiata. Resta qualche attimo a fissare la chiesa. Mantiene la sua postura rigida. Poi si decide a parlare e dal tono con cui ci intima di uscire temo che neppure questo luogo sacro potrà proteggerci dalla furia nazista. Vuole fuori tutti quanti nel giro di pochi minuti, a gruppi di sei persone per volta.

Il parroco continua nella sua opera di rassicurazione. Non dobbiamo temere il peggio. Non sotto gli occhi di Cristo. Lui saprà mettere  una mano sulla coscienza dei tedeschi. Pensa di poter convincere l’ufficiale a non commettere pazzie. Poi esce. Si porta davanti al suo interlocutore. Ha le mani giunte. Prega Dio e il boia. Ma solo uno dei due ascolterà le sue invocazioni alla clemenza, alla salvezza dei fedeli e delle loro anime. Il prete implora con voce ferma il rispetto per gli innocenti. Uomini, donne e bambini, esseri inermi contro le armi. Poi supplica pietà.

Dio è nell’alto dei cieli ad ascoltare. Schmalz è il Dio in questo angolo di terra appenninica. Ed è lui che decide. Non intende ragioni. Tutti fuori dalla chiesa. Subito, o ci penseranno i suoi soldati a snidarci uno per uno e allora sarà peggio ancora.

Usciamo, chi in lacrime, chi con i pugni stretti per la rabbia. Pallidi, spintonati dai fucili dei soldati, si barcolla, si prova a reagire. Qualcuno viene colpito. La lunga colonna di fedeli si spezza in mille piccoli gruppi. Mariti strappati alle mogli, madre strappate ai figli. Nessuno dei soldati abbassa le armi. Sono puntate contro di noi, tese come il filo del nostro destino che si può spezzare in un attimo.

Quando siamo tutti in strada, il comandante invita il prete ad andarsene, lui è un uomo di Dio e può continuare la sua opera di pastore. Vedo il prete dire di no con la testa e dirigersi verso i suoi carnefici. Si inginocchia a terra e prega. Prega per tutti noi. L’inferno ha spalancato le sue fauci e cerca di inghiottirsi la casa di Dio. Il gelo della morte paralizza il cuore di ognuno di noi prede di una trappola ignobile.

Mi agita il senso di colpa per quello che è successo giorni fa. Ma non mi sento colpevole.

Mi torna in mente Annamaria.

Non la vedo da mesi. Penso a questo amore abbandonato, così senza una parola, un saluto, una spiegazione. Semplicemente travolto dagli eventi. Penso a lei che non conoscerà mai il partigiano Berto, e con lui nemmeno il vero volto dell’uomo con cui faceva progetti per il futuro. Un uomo sconosciuto anche a me stesso fino ad un anno fa, oggi capace di accettare l’omicidio come una parte necessaria della lotta politica. Credo che pochi accettino l’idea di sparare a un altro uomo. Anche se si tratta di un nemico. Ma per necessità o per virtù si riesce a premere un maledetto grilletto, oppure a strappare con i denti un anello di metallo e lanciare una bomba contro un altro essere umano. E uccidere. Colpa anche di mille cose che sfuggono al controllo della ragione, e al senso di umanità, intrecciate tra loro a formare una matassa di cui si perde il capo.

I nostri carnefici non vogliono sporcarsi con tutto questo sangue innocente. E capisco che la nostra sorte è ormai segnata quando vedo i soldati indossare grembiuli mimetici in gomma come nemmeno si usa nei per macellare i maiali. I colpi si susseguono uno dopo l’altro a ritmo continuo. La morte sta vincendo la sua battaglia. Ma nel modo più odioso.

La vista mi si offusca. Il panico mi toglie il respiro. Tutto ciò a cui assisto non mi pare reale. I pianti, le urla, il dolore, l’odore di zolfo, la violenza. Tutto produce gesti rallentati, come filtrati da un velo. Le voci mi risuonano dentro come un brusio, come una eco lontana. Il mondo attorno a me è opaco,  lattiginoso e sporco di sangue.

In mezzo a tanto orrore solo un pensiero mi viene in aiuto. Mi riaffiorano le parole di Trotsky lette su un numero clandestino de L’Unità. Mi rimbombano nel cervello e mi aiutano a tenere la schiena dritta mentre sento l’ombra del boia alle spalle a scandire la mia ultima ora…

…posso vedere la lucida striscia verde dell’erba ai piedi del muro, e il limpido cielo azzurro al di sopra del muro. E sole dappertutto. Possano le generazioni future liberare la vita da ogni male, oppressione e violenza, e goderla in tutto il suo splendore…

 

Nota dell’autore: il protagonista del racconto Dio e il boia è un personaggio di pura fantasia, utile però a mantenere viva la memoria sugli avvenimenti legati alla strage di Civitella Val di Chiana, Cornia e San Pancrazio, piccoli paesi in provincia di Arezzo. Di questo orrore si rese responsabile l’agghiacciante follia omicida di ufficiali e soldati della Wehrmacht. Solo pochi abitanti riuscirono a salvarsi da un eccidio che contò ben 244 vittime tra uomini, donne, bambini e lo stesso parroco, don Alcide Lazzeri che scelse di condividere la stessa sorte di tutti gli altri cittadini nonostante l’offerta di salvezza in quanto servo di Dio. In quell’occasione vennero fucilati anche alcuni soldati tedeschi che si rifiutare di consumare un crimine tanto assurdo quanto feroce.