Intervistatore della BBC: Pensate che i giochi olimpici siano il posto giusto in cui fare questo genere di cose? Usare un palcoscenico mondiale?
Smith: Lo abbiamo usato così tutto il mondo può vedere la povertà dei neri in America.
BBC: Potete dire di avere avuto tutto. Avete avuto la pubblicità, le medaglie, avete avuto anche il martirio.
Carlos: Non posso mangiarle. E i ragazzi cresciuti nel mio isolato, cresciuti con me, non possono mangiarle. Non possono mangiare le medaglie d’oro. Come ha detto Tommie Smith: tutto quello che stiamo chiedendo sono pari opportunità.
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Molto diversi tra loro, Tommie “Jet” Smith e John Carlos.
Smith è figlio di un mezzadro, da piccolo raccoglieva il cotone nella San Joaquin Valley in California. Serio e scrupoloso. Carlos era nato e crebbe ad Harlem, uno spirito ribelle. Non sono mai stati amici. Olio e acqua, dice Delois, la moglie di Smith. Nemmeno quel 16 ottobre del 1968 e tutto quel che ne è seguito li ha avvicinati maggiormente.
Tommie Smith a maggio del 1967 era sulla copertina di Sports Illustrated, un anno dopo su quella di Newsweek, e intanto continuava a stabilire record. La stella del college di San Jose State, la stella dell’atletica. John Carlos non era sotto i riflettori, e gli avevano annullato il 19,92 con cui aveva battuto Smith alle qualificazioni per le Olimpiadi, per una questione di irregolarità delle scarpette con cui corse (sic!).
Da qualche mese s’era trasferito anche lui a ovest, nello stesso college di Smith, l’università pubblica della Silicon Valley in cui aveva una enorme influenza sugli studenti e sugli atleti di colore il dottor Harry Edwards, il sociologo che guidava l’Olympic Project for Human Rights.
Scriveva Stampa Sera nel novembre 1967: “Una conferenza di giovani negri cui erano presenti duecento studenti, i primatisti mondiali Tommie “Jet” Smith e Lee Evans e che aveva ricevuto la adesione scritta di numerosi atleti di colore americani ha approvato all’unanimità il boicottaggio delle Olimpiadi del 1968 di Città del Messico.”
Nell’articolo si citava appunto il ruolo del professor Harry Edwards dell’Università di San José e la presenza alla conferenza di “Lew Alcindor, il giovane asso della squadra di pallacanestro dell’università di Los Angeles che a 17 anni si era visto offrire un centinaio di milioni per passare al professionismo.”
Lew Alcindor (che presto cambierà il nome in Kareem Abdul-Jabbar) non ci andò, alle Olimpiadi del Messico, una decisione probabilmente meno dolorosa per un cestista, cui si prospettava la carriera da pro che per un campione dell’atletica leggera per cui i giochi olimpici sono la gara della vita.
Sullo stesso argomento “La Stampa” intervenne con un altro articolo: “Contrastanti reazioni al no degli atleti negri per i Giochi Olimpici”. E l’occhiello recita: Cassius Clay è favorevole, Jesse Owens e Boston contrari. Qui si precisa che il “dottor Harry Edwards, capo del “movimento” che ha propugnato questa clamorosa decisione, ha precisato che il boicottaggio non si limiterà solo ai Giochi Olimpici, ma si estenderà anche a tutte le manifestazioni a cui saranno presenti atleti del Sud Africa o della Rhodesia, paesi che non fanno mistero della loro politica razzista”.
Le altre richieste formulate furono la sostituzione del presidente del Cio Avery Brundage, l’americano che aveva fortemente sostenuto, anche per propri interessi economici, le Olimpiadi della Germania nazista del 1936. L’assunzione di più allenatori di colore nei programmi sportivi delle università. E il perdono di Muhammad Ali cui avevano tolto il titolo mondiale dopo il rifiuto della chiamata alle armi.
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Howard Cosell, una delle stelle del giornalismo sportivo televisivo: Sei orgoglioso di essere un americano?
Smith: Sono orgoglioso di essere un nero americano.
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Sono passati giusto cinquant’anni, e possiamo dire con certezza che quella fotografia scattata il 16 ottobre 1968, la fotografia del momento in cui le loro vite, diverse e separate, si sono nell’immaginario fuse, resterà per sempre nella storia dello sport, delle Olimpiadi, una delle più note del ventesimo secolo. In eterno sentiremo dire Smith e Carlos e vedremo il pugno chiuso, guantato di nero, sul podio dei giochi olimpici.
Un gesto di protesta durato una novantina di secondi, durante i quali Smith pregava, e pure si emozionò mentre suonava l’inno, mentre Carlos pensava a quale postura tenere per difendersi dallo sparo di un cecchino: entrambi pensavano che li avrebbero ammazzati lì, sul podio.
Un gesto di protesta che ricorderemo per sempre.
“Devo pesare tutte le parole,” dice Tommie Smith, che ora è un pensionato e vive in una piccola casa in Georgia. “Sono cambiate le cose in cinquant’anni? Non tanto quanto speravo. A volte è come negli anni sessanta o peggio perché ci sono più motivi per essere agitati. E le persone che lottano sono meno perché manca una leadership per le persone di colore, mancano un dottor King o i Kennedy.” (Una dichiarazione curiosa, a ben pensarci, dopo otto anni di storica presidenza di un uomo di colore).
John Carlos rifiuta le interviste, ma ha risposto a suo modo al giornalista di Sports Illustrated che lo cercava insistentemente: Cosa diavolo devo fare per farti smettere di chiamarmi? Ho parlato di questa m—- per cinquant’anni, e niente è cambiato da Messico ‘68. Niente! Ho parlato, e parlato, e parlato, e non ha fatto nessuna differenza. Non è bastato. Potrei morire e rinascere, e le cose saranno ancora uguali.” La rabbia di John Carlos non è diminuita, e solo su un tema si è immalinconito: “Prendi il dottor King e Malcolm X,” ha detto. “Avevano metodi diversi per affrontare una società complessa. Ma entrambi combatterono con coraggio. Quando tutta la polvere si sarà posata, anche se non siamo mai stati insieme, Tommie Smith ed io cammineremo insieme. In eterno.”
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Per i record: Tommie Smith vinse la finale dei 200 metri uomini ai giochi olimpici di Messico il 16 ottobre 1968 correndo in 19,83, record mondiale che verrà battuto sulla stessa pista undici anni dopo da Pietro Mennea. John Carlos, che più volte dirà di avere lasciato vincere Smith e che gli importava che uno di loro due fosse sul gradino più alto del podio ma non di tenerci personalmente, arrivò terzo dietro all’australiano Peter Norman, che sul podio indossò con i due avversari un badge dell’associazione del dottor Edwards, cosa che procurò pure a lui conseguenze poco piacevoli, fino all’esclusione dai giochi di Monaco ‘72 nonostante si fosse qualificato. Norman nelle batterie aveva a sua volta stabilito un record olimpico, e in finale stabilì il record australiano.
L’unico italiano al via in quella gara fu il vecchio Livio Berruti, campione olimpico otto anni prima, e a fine carriera. Passò al secondo turno arrivando quarto nella batteria vinta da Carlos, poi fu eliminato nel quarto di finale vinto da Norman, senza mai scendere sotto i 21 secondi. Si ritirò l’anno successivo.
Quella gara di fatto segnò la fine delle carriere sportive sia per Smith, che aveva 24 anni, sia per il ventitreenne Carlos. Le numerose traversie personali che attraversarono dopo quel giorno, per quanto parecchio note, non credo siano giustificabili.
Quasi cinquant’anni dopo un altro sportivo di rilievo, anche lui legato al professor Edwards, il lanciatore di football americano Colin Kaepernick è stato di fatto escluso dallo sport professionistico dopo la protesta durante l’esecuzione dell’inno nazionale, primo tra gli atleti di colore a inginocchiarsi.