Nebbie d’agosto – 5a parte [ALlibri]

a cura di Angelo Marenzana

 

 

 

Mezz’ora dopo, sulla porta del suo ufficio, il commissario trovò padre Lorenzo che lo stava aspettando. Entrarono insieme. Come la mattina precedente, il commissario prese posto dietro la scrivania e il prete, dandogli le spalle, si mise alla finestra.

Il commissario raccontò tutto, dalla scoperta dei pallini di ferro, fino alle parole del Romualdo Grassi e dell’incontro con l’avvocato Amodei. Don Lorenzo rimase zitto. Ascoltava il racconto del commissario e si stritolava la lunghe dita nodose. Era fisso, impalato di fronte al vetro rigato di polvere e di unto.

Fuori non era più la giornata calda di ventiquattr’ore prima. Il cielo era velato di nubi che diventavano più scure ogni minuto che passava. Un vento fresco muoveva le cime degli alberi.

“Forse pioverà, e se arriva un bel temporale è finita anche l’estate.”

Si voltò lento, il commissario si stava dondolando sulla sedia. Stava armeggiando con un toscano, indeciso se accenderlo o no.

“Nient’altro?” disse il sacerdote.

“Nient’altro… per il momento nient’altro.”

“Il tempo è trascorso e noi non siamo stati capaci di renderlo produttivo.”

“Non disperatevi padre, non potevamo fare di più. Non mi illudevo certo di chiudere questo caso in così poche ore. Però abbiamo fatto un passo avanti importante. Dobbiamo convincere il tenente che non si è trattato di un attentato – fece una pausa – anche se non abbiamo in mano alcuna prova. Istintivamente, noi crediamo a delle parole, ma non abbiamo elementi che ci aiutino.”

“Se non è stato un attentato allora chi ha sparato? E perché?”

“Ma chi lo sa. E’ proprio questo il mistero. Ci ho pensato tutta la notte ma non ho trovato una risposta. Una squadra di partigiani che sta fuori dalle regole e che non è armata a sufficienza? Una bravata? O una vendetta? Ma per che cosa?”

Quirico si decise ad accendere il toscano. Guardò l’ora: mancava un quarto alle dieci. Si alzò e andò al fianco di don Lorenzo. Spalancò la finestra e sentì una folata d’aria fresca sollevargli le corte maniche della camicia. La luce in strada prendeva un colorito azzurrognolo e le prime foglie rotolavano tra i passi della gente. Lasciò la mano con il sigaro penzolare all’esterno.

“Mi dica di quei tre, padre. E’ stato con loro?”

“Si, quasi tutta la notte. Prima si sono confessati poi hanno voluto parlare.”

Parlavano insieme, poi tacevano all’improvviso tutti insieme. Si strozzavano le parole e qualche istante dopo sorridevano. Magari ridevano con gli occhi lucidi. Non smettevano per un attimo di tremare. Non si agitavano, non camminavano, restavano seduti sul tavolaccio ma le loro gambe, la loro voce, le loro mani vibravano come sottilissime lamelle d’acciaio. Non si conoscevano, non si erano mai visti, ma le loro parentele ed amicizie si erano in qualche modo incrociate. Qualche ricordo emergeva a fior di labbra, qualche nome comune, qualche invisibile legame li teneva insieme. Più che la speranza di non finire contro un muro scrostato di fronte alle canne dei fucili tedeschi.

“Siamo stati insieme fin dopo le cinque. Poi due si sono quietati in un sonno leggero. Sono rimasto ancora una mezz’ora con Nando. Poi l’ho lasciato con la promessa che sarei tornato da lui verso le undici.”

“Come sta?”

“E’ un ragazzo forte. Si è raccomandato la madre, diceva di starle vicino. Forse è stato quello che ha cercato di sorridere più di tutti. Sarà anche la sua giovane età a non dargli il senso della morte.” Sorrise anche don Lorenzo. Poi continuò:

“Per un attimo l’ho addirittura visto ridere di cuore. Diceva che i tedeschi sono proprio degli imbecilli. Sul camion coperto, insieme a loro tre, c’era anche un vitello morto…”

“Un vitello?” Quirico lo interruppe e corrugò la fronte.

“Si, commissario, mi ha parlato di un vitello. E diceva che solo dei tedeschi possono macellare un vitello ad agosto, quando invece tutti sanno che lo si deve fare d’inverno.”

 

Il vento aumentava in strada, ma il commissario sudava lo stesso. Fece la strada che lo divideva dal comando tedesco con pedalate vigorose. Conquistava lo spazio ad un vento che in alcuni tratti gli strappava la giacca all’indietro.

Abbandonò la bici contro il muro, poi fece la solita trafila con la sentinella ed entrò nel solito ufficio. Questa volta non sentì odore di muffa.

“Allora herr kommissar, chi sono i colpevoli?” sbottò l’ufficiale con un filo di sarcasmo nella voce e un altro di saliva incollato tra le labbra semiaperte.

“Questo me lo dovete dire voi, tenente.”

“Mi state forse prendendo in giro?”

“No, non vi sto prendendo in giro. Voi ditemi a chi avete rubato il vitello, l’altro giorno quando eravate di pattuglia, e solo così salta fuori il colpevole.”

Il tenente incassò l’accusa.

Quirico preferì voltarsi e guardare in strada.

Cinque militari marciavano rigidi in colonna sul marciapiede. Tutto sembrava immobile attorno a loro. Solo il cigolio delle imposte che si socchiudevano al loro passaggio li accompagnava in direzione del carcere. Di tanto in tanto nell’aria rimbombava il clamore poco distante dei carri ferroviari in manovra. Pochi curiosi seguivano il loro marciare. Non era la prima volta che a gruppi di cinque uscivano armati dal comando ma questa volta tutti sapevano dove stessero andando.

“Ve lo ripeto, tenente, a chi avete rubato quel maledetto vitello?”

“Quello che importa in questo momento è che qualcuno ha attentato alla vita di soldati tedeschi.”

Schroth sfiorò le spalle di Quirico e si diresse verso la porta.

“E qualcuno per questo deve pagare. C’era un accordo fra di noi: se voi mi aveste portato in questo ufficio i colpevoli a questa stessa ora, io avrei lasciato liberi i tre detenuti. Voi invece siete venuto qui a mani vuote, e non potete pretendere niente.”

Poi calò il silenzio. Entrambi si davano le spalle. Uno dai tratti magri e nervosi, tutto vestito di nero. L’altro più robusto, con qualche chilo di troppo attorno alla vita, nel suo abito grigio tutto stropicciato. Il tenente si mise il berretto, si assestò la giacca e invitò il commissario ad uscire. Si lasciarono così, nel silenzio, ognuno con il proprio sguardo rivolto ad un altro mondo.

 

Quirico fece con la bicicletta il giro più lungo possibile per arrivare al carcere. Mancavano una decina di minuti a mezzogiorno quando giunse sotto il basso muro del cortile. Se lo ricordava vagamente all’interno, c’era stato solo una volta per caso. Era uno spazio piccolo, rettangolare, appiccicato al corpo centrale che si diceva una volta essere stato un vecchio ospedale per malati di peste. O almeno così aveva capito lui.

Si ricordava una cappelletta sulla destra del cancello a grosse sbarre metalliche. Forse don Lorenzo era già lì, con il Vangelo in mano, e magari davanti a lui stavano passando proprio in quel momento i tre uomini in mezzo ai soldati.

Non filtrava alcun rumore.

Quirico non aveva mai assistito ad una fucilazione. Chissà cosa succedeva. Li mettevano in piedi contro il muro o li sedevano su una seggiola dando le spalle al plotone?

Si fermò al muro scrostato. Mise le mani a coppa e accese un mezzo toscano tra il vento, a fatica. Una leggera coltre nebbiosa gli velò il viso. La bocca era piena di saliva, non riusciva a mandarla giù, non riusciva più a deglutire. Sapeva già che quel giorno, e forse anche nei prossimi a seguire, non gli sarebbe stato facile mandar giù più niente.

Guardò il manifesto giallo affisso al muro.

La scritta ACHTUNG BANDITEN gli esplose negli occhi, con quel carattere nero di stampa che superò la coltre di fumo denso del sigaro. Il fumo gli fece lacrimare gli occhi. E pensò a sua moglie. A quell’ora poteva già essere a casa della sorella. L’orario previsto era le undici e trenta. La vide in tutta la sua rotondità, sistemare in fretta gli abiti dei tre bimbi prima di scendere dal treno, accarezzare loro leggermente la testa, sgridarne uno e con le dita provare a pettinargli i capelli ribelli, come quelli del padre.

Alcuni colpi di fucile si sovrapposero tra di loro e spezzarono il ritmo delle immagini nella testa di Quirico.

Poi il silenzio.

Una cappa di vuoto investì tutto quanto, togliendo il respiro e lasciando il formicolio in bocca al commissario.

Ma solo per una manciata di secondi.

Dal carcere arrivò un colpo secco di pistola.

Il commissario sentì un’onda di freddo percorrergli la testa e la base dei capelli irrigidirsi. Fece una smorfia, quasi a respingere il senso di nausea, poi chiuse gli occhi e ricominciò ad immaginarsi sua moglie. La vide con il viso paffuto e tenero anche se le prime rughe ne incidevano la fronte e i bordi della bocca.

Poi l’eco di un secondo sparo.

Quirico alzò la testa al cielo e venne colpito da una goccia. Si guardò in giro: tutta la strada era macchiata da tante, grandi gocce succose.

Infine giunse anche l’ultimo colpo. Un volo di cornacchie arrivò improvviso, passando a filo dei tetti delle case, un volo basso e assordante, acuto, con stridii che laceravano l’immobilità dell’aria.

Solo allora il commissario si tappò le orecchie. Ma flebile, tutto dentro la sua testa, sentì il suono delle campane che inondava il cielo partendo dalle chiese che circondavano l’abitato, come sentinelle dell’anima, appoggiate qui e là, nelle frazioni a ridosso delle montagne, ad altezze diverse, ad accompagnare quel soffio di morte nel suo viaggio di dolore.

 

(Fine)