Ricordate? I mondiali del 1978 li doveva vincere la Scozia, o almeno questo credevano i tifosi “tartan”.
E lo credeva anche David Forrest. D’altronde, se hai dieci anni sei portato a credere che la tua squadra vincerà sempre, anche la Coppa del Mondo.
(Sì lo so, non è che poi passa. Infatti i tifosi di fùtbol hanno per sempre dieci anni).
David Forrest nel frattempo è cresciuto, e ha scritto un post (scusate il terribile gioco di parole: post in inglese significa anche palo) poi diventato articolo del Guardian, in Italia ripreso da Undici. Racconta un suo viaggio alla scoperta del mistero delle basi dei pali delle porte dipinti di nero, ai mondiali di Argentina. Scritto assai bene, con tipico stile british e un’atmosfera alla Graham Greene, svela appunto il segreto di quelle anomale bande nere alla base dei pali, ovviamente legandolo a una storia di desaparecidos.
Che sia vero o meno, ci crediamo. In Argentina, quindi, l’opposizione ai generali si fece perfino con il colore dei pali delle porte.
Mai così protagonisti come in quel mondiale, peraltro, i pali delle porte.
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“Siamo andati in Argentina dove ogni giorno ci sono dei morti. Ma per queste cose non c’è tempo perché Rep ha appena segnato. Senza Cruijff ma in finale, chi se lo sarebbe aspettato.”
Freek de Jonge è “un buffone olandese” come gli dissero esplicitamente quando tentò di esportare in Germania la sua campagna per boicottare i mondiali di Argentina.
Nei primi mesi del 1978 coinvolse Bram Vermeulen, un altro attore comico della sua compagnia, appena – come racconta – realizzò che: “per il figlio di un predicatore calvinista di origini ebraiche l’associazione è immediata. Berlino 1936, le Olimpiadi, ovvero la cartina di tornasole della Germania nazista. In Argentina stava succedendo la stessa cosa con i Mondiali di calcio.”
Ripetiamolo, non c’erano i prigionieri rinchiusi nello stadio, le sparizioni avvenivano nel buio della notte, le voci di chi era riuscito a lasciare il paese erano deboli, le madri erano “las locas”. Finché le immagini delle loro manifestazioni non uscirono dal paese, e a trasmetterle fu la televisione olandese. Da noi c’era un giornalista che provava a superare gli ostacoli e a raccontare quel che succedeva, Italo Moretti di Rai 2, e chi come me ha i capelli che si ingrigiscono ne ricorda la bravura.
Se si misura il successo della campagna di boicottaggio organizzata dal “buffone olandese” con il non essere riusciti a impedire la partecipazione della nazionale orange, allora non andò a buon fine. Se invece si considera quanto servì a diffondere la consapevolezza degli orrori che stavano succedendo, fu un trionfo.
Quella campagna era nata con uno spettacolo (un po’ nello stile del teatro che da noi facevano Dario Fo e Franca Rame), dal titolo: ‘Bloed aan de paal’.
Sangue sul palo.
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Cruijff aveva rifiutato di partecipare, e nel tempo si daranno diverse motivazioni: la paura di essere rapito, ma anche una forma di protesta, versione onestamente ben poco probabile. In realtà il “numero 14” era in un momento personale molto difficile, si sentiva a soli trentun anni a fine carriera.
La nazionale era meno scintillante rispetto a quella che aveva fatto innamorare tutto il mondo quattro anni prima. Resistevano alcuni “ajacidi”, i terzini Surbier e Krol, l’Arie Haan che ci buttò fuori col gol a Zoff, Johnny Rep e Johan Neeskens, il cognato di Cruijjf che aveva seguito in Catalogna. In porta tornava, col suo numero 8 sulla maglia, e grazie all’infortunio patito contro di noi dal titolare, Jan Jongbloed. Uno di cui adesso si dice che interpretasse il ruolo in modo moderno, allora tutti pensavano fosse parecchio scarso.
Una squadra meno scintillante di quella che aveva il tifo di tutto il mondo per sé, quattro anni prima, quando era così bella e sicura che si dimenticò di curarsi degli avversari, il giorno della finale.
Una squadra che stavolta, come chi continua a non credere al destino, si scelse per eroe uno che aveva già dimostrato di non essere nato per vincere: Rob Rensenbrink, tra l’altro cresciuto nella stessa squadretta in cui ha passato quasi tutta la carriera Jongbloed, il DWS di Amsterdam che adesso sta nella loro serie D.
Seconda punta elegante, pieno di talento, uno che in carriera segnò più di 200 gol ma anche l’unico olandese che negli anni della gloria, quando l’Ajax vinceva tutto, giocava nel campionato belga.
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La finale fu una delle partite decisive più feroci di sempre. I ventidue si menarono, e davvero è difficile distinguere i buoni dai cattivi, la ferocia della gomitata bastarda di capitan Passarella a Neeskens fu presto pareggiata da quella che il biondo rifilò a Tarantini, che proseguì l’incontro con la maglietta chiazzata di sangue.
Nel ‘74 gli orange, che conservano il primato non gradito di avere perso due finali consecutive contro la nazionale del paese ospitante, erano andati in vantaggio subito, stavolta seppero rimontare. Segnò infatti nel primo tempo Mario Kempes, il miglior giocatore del torneo, pareggiò di testa uno tra Nanninga o Poortvliet (sembra incredibile, ma troverete il gol accreditato a uno e all’altro: fu Nanninga, comunque) quando mancavano meno di dieci minuti.
A tempo scaduto una punizione battuta nella metà campo olandese saltellò, abbastanza lentamente, verso l’area dell’albiceleste. Superò i difensori, piazzati male. Fillol, che aveva già tolto dal sette – non si sa come – un gran tiro di Johnny Rep, capì che doveva uscire, almeno a cercare di “stringere lo specchio della porta”, come si dice.
Fu più veloce di lui Rensenbrink, che doveva essere l’eroe ma non era quello, purtroppo, il ruolo assegnatogli. Arrivò dal limite dell’area fino a ridosso del portiere, e riuscì a toccarla di interno sinistro. L’Adidas Tango rimbalzò per terra, poi risalì, sempre lentamente, verso la porta.
Solo per colpire, pochi centimetri sopra quella base dipinta di nero, il palo.
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Le puntate precedenti:
Ponti di memoria: i mondiali di Argentina ’78
La Scozia vincerà la coppa del mondo