I Diari del giudice Giovanni Falcone rientrano ormai a pieno diritto nella storia dei misteri d’Italia, quel filo nero con cui, dal dopoguerra ad oggi, si sono create le trame del sottobosco del nostro potere per mantenere in equilibrio legami e rapporti oscuri tra i rappresentanti di uno stato deviato, la criminalità, il terrorismo internazionale e i servizi segreti. Arcani della Politica e dell’Alta Finanza, da cui nel corso degli anni non ne è uscito indenne neppure il Vaticano, sempre proposti come una narrazioni di intrighi tranquillamente spalmati tra cosche e logge di varie genere. La colonna sonora si orchestra con stragi, bombe, morti, suicidi discutili. Il più delle volte seppelliti senza un atto di giustizia.
E a proposito dei diari di Falcone, “tutti i pentiti sostennero di aver pedinato l’auto che andava a prendere il giudice a Palermo negli ultimi quindici giorni e di aver scoperto così che Falcone scendeva a Palermo di sabato. A smentirli tutti quanti sono tuttavia le agende elettroniche del giudice: in esse si evidenziava come negli ultimi due mesi Falcone non fosse mai sceso a Palermo di sabato. Come facevano allora i mafiosi a sapere dell’arrivo di Falcone in città? Fu davvero pedinato?”
È quanto si chiede Edoardo Montolli, giornalista e autore del volume “I diari di Falcone”, edito da Chiarelettere e in libreria dal 17 maggio. Edoardo Montolli nel 2009 pubblicò il libro “Il caso Genchi”, sulla vita professionale dell’allora vicequestore aggiunto Gioacchino Genchi. Da allora lo scrittore ha studiato le consulenze sulle due agende elettroniche di Falcone che proprio Genchi, insieme all’ingegnere Luciano Petrini (assassinato nel 1996, il colpevole non fu mai trovato) svolse e depositò a Caltanissetta nel 1992, tra mille ostacoli ed episodi misteriosi ripresi dal libro. Entrambe le agende – fa notare Montolli nel volume – risultano stranamente vuote nel mese di marzo, quando fu diffusa la “circolare ai prefetti” in cui si allertava il Paese dal pericolo di attentati tra marzo e luglio. Una delle agende fu ritrovata cancellata in maniera non accidentale dopo il sequestro, ma i consulenti dell’epoca Gioacchino Genchi e Luciano Petrini ne recuperarono il contenuto.
Risultava all’interno un viaggio a Washington di Falcone, che secondo autorevoli testimoni avvenne per interrogare Tommaso Buscetta dopo il delitto Lima. Il viaggio fu smentito dal ministero della giustizia e dall’Fbi. Ma, nota l’autore, confrontando le agende con le testimonianze in aula “nessuno ancora oggi sa dire dove si trovasse allora Falcone, l’uomo più controllato d’Italia, tra il 28 aprile e il 3 maggio 1992”. Buscetta, prosegue l’autore, profetizzò le stragi del 1993 sul Continente al patrimonio artistico, parlandone al magistrato Leonardo Guarnotta il 16 marzo del 1993, più o meno un mese prima che la decisione fosse presa dai Corleonesi. Come faceva a saperlo? Scrive ancora l’autore: “Poco prima che Falcone salisse sull’aereo che lo portava a Palermo un cellulare 0337 sicuramente in mano agli stragisti (probabilmente lo usava Gioè) chiamò tre volte in Minnesota, l’ultima per quasi nove minuti. Il fatto curioso è che non solo tutti loro negarono di aver chiamato negli Stati Uniti, ma anche che quel telefonino risultava rubato e già cessato. Come faceva dunque a funzionare? Poteva essere stato clonato? Se così fosse, chiunque avrebbe potuto davvero prendere il controllo dell’operazione, attribuendone poi la paternità ai mafiosi”. Si tratta di un passaggio in cui il libro, che analizza le agende elettroniche di Falcone, si addentra in alcune ipotesi investigative mai approfondite, tra le quali quella secondo cui dietro la strage ci fossero gli Stati Uniti.
Montolli ha realizzato anche un’intervista all’avvocato di Salvatore Biondino, attendente di Totò Riina, Salvatore Petronio, il quale afferma: “In un colloquio durante una pausa del primo processo di Caltanissetta, attraverso le sbarre, in uno sfogo mi disse: “Avvocato, ma è mai possibile che un attentato così importante lo abbiamo fatto noi, quattro sprovveduti?””.