Esiste un elemento ricorrente nelle storie che scrivo. Ricorrente e centrale e, compiendo per poche righe la scorrettezza di fare il critico di me stesso, lo identifico nel luogo di ritrovo – se possibile con colonna sonora -, leggi pub, discoteca, piano bar e/consimile, nel quale più personaggi hanno la possibilità di transitare, discutere, vivere e persino morire. Sin dai lontanissimi tempi della prima stesura di Rock (1998), dove locali come balere, SOMS e disco si sono mostrati come l’evidente specchio di quelli da me frequentati nella mia attività di musicista, non ho quasi mai mancato d’inserire in romanzi e racconti il “palcoscenico” del locale pubblico come elemento naturale della narrazione. Scelta effettuata sempre d’istinto perché oggi ho deciso di ragionarci solo oggi per la serie, molto gettonata in terza età, “meglio tardi che mai”.
Il fatto è che, nell’ultimo uscito L’ultima storia da raccontare (Watson Editore), scritto a quattro mani con l’amico Angelo Marenzana, il locale, dopo essersi mostrato a più riprese, diventa teatro finale di una strage catartica – 12 vittime – che nelle intenzioni degli autori riecheggia affettuosamente lo storico e inarrivabile finale de Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah. Il posto si chiama La Vecchia Taverna ed è, a tutti gli effetti, un “personaggio” al pari degli altri, ma non in carne e ossa.
Facendo un po’ di contabilità narrativa, analoghe location sono reperibili in Lepidotteromania dall’antologia L’assassino è il chitarrista, in Palo Mayombe (il Principe, il Fuzzy, il Pepes), in Black Magic Woman (il Britannia Pub), in Ancora il vento piange Mary (La Tana degli Orsi), in Bad Visions (il Dragut e il Maelstrom). Ma scordatevi che siano mere invenzioni. Al di là del fatto che in qualche caso i nomi sono persino gli stessi (vedi Principe o Britannia), i miei locali “descritti” sono proprio quelli in cui sono transitato. Intanto per una precisa ragione che si chiama “Notte”, quel luogo spazio-temporale in cui tante suggestioni, verosimili o semplici categorie della rappresentazione, coagulano in un immaginario estetico che ha segnato di sé la storia dei generi popolari degli ultimi trent’anni. Laddove la musica, il Male e il Lato Oscuro attraversano tanto la cronaca che la fiction in una consapevole confusione percettiva che è un po’ il segno degli strani tempi che stiamo vivendo. Ma il sottoscritto, un po’ per lavoro e un po’ per diletto, è sul serio entrato e uscito, soprattutto tra gli anni ’60 e ’70, da decine di luoghi d’intrattenimento che si chiamavano Wanted, Paip’s, Gallery, Tiffany, Salera, Cla Cla, Caline, La Carta Vetrata, Blu Notte, Whisky Club, Betatron, Topsy, Revival, Nautilus, Psycotron, Scotch e altri ancora (scoprite voi dove). Senza omettere luoghi mitici dell’epoca che si chiamavano Il Covo, Il Carillon e Piper 2000 che esistono tuttora e alla grande. E tutto quel che ho visto, sentito e “assorbivo” in quel pezzo della mia vita in qualche sgabuzzino del mio immaginario è certo finito. Ad esempio qui:
Tribale. Non esiste un altro termine. E neppure questo riesce a rendere l’idea, dato che la parola indica una qualsivoglia vita di gruppo. L’aspetto sconcertante è l’assoluta assenza di comunicazione reciproca.
Fatte salve, forse, le due o tre combriccole di ragazzi che circondano il banco del bar. Per il resto si percepiscono solo solitudine, occhi sbarrati, sudore perlaceo, nevrotiche passeggiate da est a ovest, fra le piste e i cessi. E rabbia.
La musica è demenziale, insopportabile, un attacco programmato e devastante al sistema gastrointestinale. I quarti martellano lo sterno e si riverberano sul colon. I timpani si accartocciano su sè stessi. Il cervello si anestetizza e diventa insensibile a qualsiasi stimolo che non sia quello sonoro. Non è musica, ma spazzatura risonante creata da un software di ultima generazione. Quei bassi lunghi e cupi che vibrano come mostruosità invisibili (ma ultrapercettibili) e che scuotono le vetrate di un intero quartiere al passaggio di un’auto con le casse che sparano, appunto, spazzatura.
Casse da morto.
E, nonostante l’erotismo pubblicamente professato dalle cubiste al lavoro e dalle ragazzotte più sotto che tentano di imitarle, le sale del Maelstrom danno vita (vita?) al festival mondiale del pisello moscio.
Questo penso, con assoluta e desolata sincerità, mentre mi avvicino al banco, diretto verso il mio LinguaSciolta preferito.
Diciannove anni, ne dimostra dieci di più, strafatto e spacciatore, cresciuto a idrocarburi di hamburgher discount. Nel giro lo chiamano Elephant, berretto e pantaloni da rapper di borgata, di quelli che prima s’infilano sotto la suola e dopo t’imbatti in uno zoppicante trippone che si trascina dietro stracci lerci e consunti. Parla come due comici di Zelig di cui non ricordo il nome. E mi caga, nonostante sia ultracinquantenne e lontano miglia e miglia dal suo mondo a scadenza limitata, solo perché pensa di essere un figo nel campo dell’occulto. Deve aver letto un libro, forse due, di Crowley. Insomma, un povero scemo. Ma mi serve.
Mi appoggio al banco. Ordino un Cuba Libre a una chicana talmente ricoperta di ferraglia che sembra una madonnina partenopea dopo un travaso di sangue dai bulbi oculari. “Fallo leggero!”, le urlo, ma con il casino che c’è dubito che abbia afferrato.
È un esempio virato in negativo, va da sé. Come trasformare in “bettola oscura” quel che sulla carta è un luogo di aggregazione e (si spera) divertimento. Per la cronaca, l’inesistente discoteca si chiama appunto Maelstrom e proviene da Blue Siren e l’ultimo giro di vite.
Non nego però che la bellezza apocalittica della Vecchia Taverna in L’ultima storia da raccontare la consideriamo, Angelo e io, al momento irraggiungibile, Se non fosse che purtroppo la realtà ogni tanto, su questo fronte, fa a gara per superarci. E qui potrebbe partire la famosa discussione se il noir sia o meno l’autentico specchio della realtà…