Da Il Mestiere di Vivere di Cesare Pavese, pagina del diario del 12/04/1947:
“Tu sei solo, e lo sai. Tu sei nato per vivere sotto le ali di un altro, sorretto e giustificato da un altro, che però sia tanto gentile da lasciarti fare il matto e illudere di bastare da solo a rifare il mondo. Non trovi mai nessuno che duri tanto; di qui, il tuo soffrire i distacchi – non per tenerezza. Di qui, il tuo rancore per chi se n’è andato; di qui la tua facilità a trovarti un nuovo patrono – non per cordialità. Sei una donna, e come donna sei caparbio. Ma non basti da solo e lo sai”.
“Ma non basti da solo e lo sai”. Com’è vera questa frase conclusiva, che non chiude niente e può riaprire tutto. Pavese, il poeta della solitudine (secondo alcuni, soliti cinici della letteratura), afferma invece che “tu sei nato per vivere sotto le ali di un altro”. Tutto Pavese, la sua vita e la sua opera, è una lotta contro la solitudine per cercare di affermare/afferrare le ali di un altro. Lotta impari, se non si affaccia la categoria della possibilità, dell’imprevisto in cui un altro si fa vivo e bussa alla porta.
Pavese è poeta e cantore della necessità di una compagnia all’uomo, e al tempo stesso della incapacità sua e nostra (perché lo capiamo benissimo tutti che è così) di realizzare da noi, con le nostre sole forze, quella compagnia. La desideriamo, e al tempo stesso non siamo in grado di darcela: la poesia dei più grandi, di ogni tempo e di ogni terra, ruota proprio intorno a questo interrogativo. Pavese risolverà la questione il 27 agosto del 1950 a Torino, senza darsi una possibilità ulteriore.
In famiglia o con gli amici, in politica o in chiesa, al buio o allo specchio… non bastiamo da soli, è evidente. Ma allora chi ci può fare veramente compagnia?