Esiste una importante tradizione della Poesia italiana che sostanzialmente tende alla frantumazione dei versi e alla nettezza del risalto delle singole parole: non si tratta di una scuola poetica né di una serie continua di precisi rimandi, ma piuttosto proprio di una tendenza che procede come una spirale che ogni volta che ripassa in corrispondenza di un suo punto è piú vicina alla sua meta.
In un certo senso, l’iniziatore di questa tendenza è stato Giacomo Leopardi con la sua Canzone Libera: un particolare schema/non-schema metrico che riprende la Canzone della tradizione poetica italiana con il suo alternarsi di versi di undici e versi di sette sillabe, ma rende quest’alternanza totalmente libera; non sapendo in anticipo che verso aspettarsi e considerando che mezzi versi di sette sillabe si possono ritagliare spesso anche all’interno di un verso di undici, il lettore tende a perdere il ritmo dei singoli versi, a guadagno della musica generale della strofa.
Questo stesso metro fu reso ancor piú ondivago ed elastico da Gabriele D’Annunzio che ai versi di undici e sette sillabe alternò nella stessa strofa anche versi di nove e cinque e tre, con questi ultimi che spesso corrispondono a singole parole.
D’altro canto Carducci, con i suoi componimenti “barbari” (privi di rime e composti di versi spesso anche molto differenti per lunghezza), affrancò definitivamente dalla rima la Lirica; e le regole che determinano l’alternanza dei versi in questi componimenti carducciani sono tanto complesse e dotte – in quanto legate all’antica versificazione latina – da esistere sul piano architettonico e intellettuale ma da essere sovente poco presenti all’orecchio: sicché paradossalmente i componimenti “barbari” di Carducci appaiono all’ascolto totalmente liberi nella forma, anche a chi ben sappia che in realtà erano tutt’altro.
E cosí la nascita del cosiddetto “verso libero” (niente rima e con lunghezze e ritmi non preordinati), apparentemente tanto dirompente, era preparata e naturale da secoli di storia. Ecco anche perché, per quanto in molti (e certi poeti fra questi) paiano pensarla diversamente, una poesia pure moderna non è una prosa con qualche bella immagine dove si vada a capo ogni tanto: è innanzitutto una precisa costruzione tecnica, tanto piú complessa quanto meno l’architettura sia evidente.
La frantumazione dei versi e la potente singolarità della parola unite a una programmatica oscurità del senso sono le caratteristiche fondamentali e piú evidenti di quella linea di poesia novecentesca fiorita negli Anni ’Trenta che va sotto il nome di “ermetismo”.
Esiste però tutta una serie di poeti che scrivevano (o che iniziavano a scrivere) in quello stesso periodo e che erano ermetici solo a metà: nel senso che dell’Ermetismo sposavano alcuni aspetti ma non altri, e che sono molto difficili (ammesso che la cosa abbia davvero un costrutto) da definire come appartenenti a una o a un’altra corrente.
L’esempio piú illustre è quello di Umberto Saba. Nato col cognome di Poli, fu una figura centrale e marginale del nostro Novecento: centrale per la sua effettiva importanza e rinomanza artistica, marginale per il suo concreto isolamento dal Mondo letterario. Triestino, fu uomo di singolare sensibilità; legato in modo profondissimo alla sua balia – dalla quale probabilmente prese lo pseudonimo – amò e soffrí per tutta la sua vita con un abbandono sentimentale di rara totalità: né ciò può esser spiegato con la vera tragedia che lo colpí delle leggi razziali (ché a ben prima e altro si legava il suo sentire), e deve invece esser posto in relazione con qualcosa che piuttosto esisteva dentro di lui e che probabilmente lo fece poeta.
Saba è poeta di cose nette e chiare: dell’Ermetismo accoglie la forma spezzata del verso e il protagonismo assoluto della parola, ma li pone al servizio non di un’iniziatica oscurità ma anzi di una disarmante nudità sincera. La vita di ogni giorno e la semplicità chiare, non trasfigurate e non universalizzate, sono il tema della sua poesia programmaticamente isolata rispetto al panorama che lo circondava.
Eppure, l’esempio di Saba fu seguito da molti. Fu considerato da Sandro Penna il suo ideale maestro. Perugino, anche Penna ebbe un’esistenza segnata dalla sua sensibilità eccezionalmente profonda. La sua poesia pure è chiara e limpida, poesia di cose precise e di trasparenti sentimenti.
Nel Novecento stesso questo genere sabiano fu considerato “antinovecentesco”. Col senno di poi, il secolo breve delle grandi trasformazioni non ha bisogno di esser determinato in ciò che è “novecentesco” e ciò che è “antinovecentesco”: accoglie nelle sue inospitali braccia chiunque chieda o non chieda di esservi ospitato.