Una domenica letteraria all’insegna dell’inquietudine. L’appuntamento è con Nicola Lombardi, ferrarese, classe 1965, un autore dall’impronta orrorifica ben affilata. Parliamo di un veterano del genere in grado di coniugare uno stile di grande trasparenza con i contenuti più profondamente tenebrosi dei suoi personaggi. Dopo ave aderito al movimento romano Neo Noir, Nicola Lombardi cresce alla scuola di Dario Argento (suo il racconto Suspiria per la Newton & Compton) e il romanzo Profondo Rosso tratto dall’omonimo film. Traduttore e saggista, ha al suo attivo anche romanzi del calibro di I Ragni Zingari del 2010, un titolo palindromo per un romanzo di specchi e riflessi perfettamente ambientato in un momento storico quale il 1943, stretto tra l’armistizio firmato da Badoglio e il rientro a casa del protagonista dopo la fuga dal fronte albanese. Ricordo anche La Cisterna (2015) la cui lettura è consigliata anche a chi non ama il genere horror per la straordinaria capacità dell’autore di stupire chi ha di fronte. Membro dell’Horror Writers Association (e questo la dice lunga) Nicola Lombardi è in compagnia di ALlibri con il suo racconto Un centro perfetto.
Un centro perfetto
di Nicola Lombardi
Il Grande Marvin trovò convenientemente teatrale studiarsi le unghie della mano sinistra, pronunciando quella frase.
“Va tutto bene con Klaus?”
Rebecca sostò un istante col rossetto a mezz’aria, osservando sé stessa assumere un’espressione sbigottita dentro lo specchio illuminato da una cornice di lampadine. Il cuore le inviò un singulto in gola, ma riuscì a reprimerlo piegando le labbra in una smorfia piuttosto sgraziata.
Lanciò un’occhiata diffidente all’uomo riflesso alle sue spalle, seduto sul bordo del lettino.
“Klaus?” azzardò, stridula. “Scusa, cosa c’entra Klaus?”
Il Grande Marvin – Marco Vinci, per l’anagrafe – studiò oziosamente i coltelli contenuti in una cesta di vimini, stretta fra le sue gambe.
“Niente, dicevo così… O ti aspettavi forse che non sapessi nulla?”
L’uomo lanciò un ampio sorriso allo specchio, un sorriso a denti stretti che avrebbe potuto infrangere il volto riflesso di Rebecca. La ragazza smise di truccarsi, e fece ruotare lo sgabellino per affrontare direttamente l’imprevista minaccia.
Sapeva che prima o poi la faccenda di Klaus sarebbe saltata fuori. Dio, come appariva tutto così… melodrammatico! Roba da rotocalco. Che squallore… D’accordo, tanto valeva affrontare la situazione di petto.
Fissando dritto negli occhi il marito, Rebecca confessò tutto, senza alcun rimorso. E soprattutto, senza dire una parola.
Quando si erano conosciuti, circa quattro anni prima, lei era appena diciassettenne. Una ribelle, una sorta di “figlia dei fiori” con alcune generazioni di ritardo. Scappare di casa per seguire un circo le era parsa, allora, la più fantasmagorica delle rivoluzioni, un gesto memorabile. Adesso, invece, la tentazione di prendersi a ceffoni si faceva ogni giorno più prepotente.
Si era accorta di non amare Marco pochi mesi dopo il matrimonio, celebrato spicciativamente l’anno successivo al loro incontro. Tutte le caratteristiche che lo avevano reso irresistibile ai suoi occhi – la sicurezza di sé, l’incostanza umorale, la capacità di riempirsi le narici con dosi di “polvere” che avrebbero steso un cavallo – avevano magicamente cambiato segno, trasformandosi in difetti esasperanti. Lui era, sempre, immancabilmente, il Grande Marvin!, col punto esclamativo. Oh, era proprio un fenomeno, niente da dire. Sapeva lanciare i suoi coltelli in mille maniere: a testa in giù, con le dita dei piedi, bendato, correndo…
Povera Rebecca, rifletté con commiserazione. Povera, stupidissima Rebecca.
“Tu lo sai che potrei ucciderti, vero? Come e quando voglio.”
Il tono pacato di Marco la fece rabbrividire.
“E potrei farlo col sorriso sulle labbra. Davanti a centinaia di persone. Di questo sei consapevole?”
Rebecca si ritrovò ad annuire.
Marco non le toglieva gli occhi di dosso, quegli occhi talmente chiari da sembrare trasparenti.
“Ciononostante, pur potendo, non ho intenzione di fare una cosa simile.”
Detto ciò, l’uomo si sollevò stancamente dal letto. Il suo mantello argentato frusciò contro l’aderente tuta bianca, rimandando contro le pareti tappezzate di manifesti migliaia di infinitesimali barbagli azzurrini. Quando fu di fronte alla moglie, le posò le mani sulle spalle e la fece ruotare sullo sgabello, riportandola col viso semitruccato rivolto allo specchio. Quindi le si chinò accanto, avvicinando le labbra all’orecchio, senza staccare gli occhi dai loro volti riflessi, perduti in un irreale fulgore elettrico.
Il cuore della donna pompava furioso, trasmettendole vistosi tremiti al seno.
“Cara, cara Rebecca…” sussurrò l’uomo. “Credimi, mi aspettavo che prima o poi sarebbe successo. Anzi, mi lusinga che tu ci abbia messo tanto.”
Rebecca fece per aprire bocca, ma il marito le portò un indice alle labbra.
“Non dire nulla, ti prego. E ora finisci di truccarti, che fra poco tocca a noi.”
Con fare sbrigativo, Marco si allontanò voltandole le spalle, tornando a controllare le armi da lancio contenute nella cesta.
Rebecca scoprì di stringere ancora il rossetto fra le dita, e pur con un lieve tremore si sforzò di portare a termine le operazioni di maquillage. Ebbe l’impressione che la temperatura fosse salita a dismisura. Rivoli di sudore le correvano molesti lungo le braccia.
Quasi rivolgendosi alle proprie lame, il Grande Marvin diede prova di uno spiccato senso per i tempi teatrali.
“Vedrò comunque di fare due chiacchiere con Klaus. Con qualcuno dovrò pur prendermela, no?”
Rebecca si voltò di scatto, accesa in viso come un tizzone.
“Cosa vuoi dire?!”
“Tu che dici, mia cara Reby? A meno che…” E qui la sua inclinazione teatrale raggiunse l’apice, mentre quella pausa rimase a gonfiarsi, greve, nel ristretto spazio del camper, lasciando intendere tutto e nulla.
“A meno che tu non uccida prima me.”
Rebecca si rese conto che la mandibola le si era abbassata, e richiuse la bocca con un sonoro schiocco di denti.
“Sei piuttosto brava, a lanciare. Ti ho vista. Niente male, davvero. Prometti bene. E stasera voglio farti un regalo. Voglio offrirti un’opportunità irripetibile. Quale migliore occasione…”
Le sue parole vennero interrotte da tre decisi colpi alla porta. Ne seguì la voce del direttore.
“Forza, piccioncini! Fra cinque minuti tocca a voi!”
Il Grande Marvin annuì, senza rispondere. Si affrettò semplicemente a riordinare i propri attrezzi nella cesta e ad allacciarsi meglio il mantello. Dal canto suo, Rebecca finì di incipriarsi fissando sé stessa con occhi spiritati. Sentiva il cuore dibattersi come un topo in trappola.
* * *
Il numero si era svolto, come di consueto, con enorme successo. Rebecca aveva continuato ad assumere le varie posizioni previste dal copione, inscenando un bizzarro balletto, mentre ogni sorta di lama roteava ad infierire contro il tabellone alle sue spalle. La sua testa era zeppa di suoni, musiche, luci, colori. E mentre falene argentate le svolazzavano incontro, con i loro sibili minacciosi, lei fissava gli occhi del marito, quella sua maschera sorridente, da consumato istrione, senza leggervi assolutamente nulla…
Fino al momento in cui il numero parve terminare.
Il pubblico si abbandonò ad un’entusiastica ovazione. Il Grande Marvin si inchinò, poi però alzò una mano, riuscendo ad ottenere il silenzio nel giro di pochi secondi. Con un cenno spicciativo ordinò al presentatore di lanciargli il microfono senza filo; e quando l’ebbe afferrato, tornò a rivolgersi sorridendo al suo pubblico.
Rebecca avvertì un nodo allo stomaco. Con la coda dell’occhio catturò il volto teso di Klaus, che se ne stava cupamente appoggiato ad un palo.
“Signore e signori,” stava intanto tuonando dalle casse la voce del Grande Marvin. “Ho questa sera l’immenso piacere di presentarvi sotto una nuova veste la mia magnifica assistente, nonché moglie esemplare, Rebecca, mia degna erede nell’arte del lancio dei coltelli!” E mentre con la mano invitava tutte le teste a voltarsi verso la ragazza, uno scroscio di applausi calò come un’onda su di lei, rigirandola in un maroso di vertigine.
Tra gli addetti ai lavori serpeggiò evidente la sorpresa. Il direttore, in particolare, seminascosto dietro ad un tendaggio, accennò un passo in avanti; ma il lanciatore lo intercettò con lo sguardo e gli strizzò amabilmente l’occhio mostrandogli un pollice sollevato, ad intendere che tutto era sotto controllo.
“Lasciatelo fare,” bofonchiò il direttore a chi gli stava più vicino. “Sa il fatto suo…”
Il Grande Marvin frugò nella cesta dei coltelli, scegliendone uno dal manico rosso. Si portò poi con poche agili falcate accanto alla consorte, continuando ad esibire i denti. Come una iena, pensò lei.
“Cos’hai intenzione di fare?” gli sibilò contro Rebecca, in un soffio. In risposta l’uomo le impose di afferrare il coltello, quindi tornò con le labbra al microfono:
“Un lancio soltanto, signore e signori, per dimostrarvi quanto questa splendida donna abbia imparato dal maestro, e quanto io mi fidi della sua bravura! Forza, cara, non avere timore! Cambiamoci di posto, per una volta!”
Detto ciò, fece percorrere al microfono un’impeccabile parabola che lo riportò fra le mani pronte del presentatore.
Afferrò poi la moglie per i fianchi e con un’elegante mezza piroetta la fece ruotare, prendendone il posto con la schiena contro il tabellone.
Rebecca tentò di protestare, ma il fatto di trovarsi davanti ad un pubblico diede alla sua ritrosia piuttosto l’aria di una simulazione, e uno scroscio di nuovi applausi di incoraggiamento le mozzarono il respiro in gola. Faretti colorati sfavillavano, instabili, componendo un firmamento policromo e vorticoso sopra la sua testa.
A tutti risultò che il Grande Marvin avesse attirato a sé la moglie per baciarla, anche perché nessuno avrebbe mai potuto udire le parole che l’uomo le bisbigliò duro all’orecchio:
“Ti offro quest’occasione su un vassoio d’argento: non sprecarla. Nessuno avrà mai dubbi circa la tua innocenza. Io ti ho imposto di lanciarmi un coltello, e tu hai semplicemente ubbidito. Un errore può capitare, no? Soprattutto in condizioni limite come questa! Hai capito? Un’occasione unica. Se sopravvivo io, non garantisco per lui. Ricordalo. Mira al cuore, Rebecca. È una cosa che sai far bene!…”
E con un gran sorriso, l’uomo allontanò da sé la moglie invitandola a prendere le dovute distanze. Rebecca non smise di scandagliare i suoi occhi, mentre indietreggiava. Davvero voleva morire? Davvero le stava chiedendo di ucciderlo, lì, davanti a tutti?
Il direttore, cogliendo appieno lo spirito del momento, diede ordine al capobanda di provvedere; e subito un tamburo cominciò a rullare.
Il pubblico si ammutolì.
Rebecca deglutì a vuoto. Soppesò il coltello che teneva fra le mani, e lo stesso fece con la decisione da prendere.
Il Grande Marvin, intanto, aveva allargato gambe e braccia, assumendo la classica postura a stella. Rebecca si accorse che l’uomo stava protendendo lievemente in avanti il torace, in un tacito invito a fare ciò che desiderava lei facesse. Ma lo desiderava poi veramente? O forse quello era un modo tutto suo, folle ma coerente, per mettere alla prova i suoi sentimenti, il suo amore? Se lei lo avesse mancato, lui non avrebbe comunque potuto decidere se la cosa fosse stata dettata da una precisa volontà di non fargli del male, o più semplicemente da una mira approssimativa… E mentre il tamburo rullava – insistente, esasperante – comprese in un lampo che Marco aveva detto la verità: come avrebbero mai potuto accusarla di omicidio, date le circostanze? Tutto, dall’inesperienza ai fattori emotivi, giocava a suo favore. Sarebbe stato così strano, se il suo lancio si fosse dimostrato… sbagliato? Mira al cuore, le aveva detto. Mira al cuore…
Stirò le labbra a simulare il classico sorriso di scena, a beneficio degli spettatori, tanto per lasciar intendere che aveva accettato.
Posizionò con dita sapienti la punta del coltello fra le dita, facendolo oscillare. Flettè il braccio all’indietro, strinse i denti, e senza staccare gli occhi dal bersaglio… lanciò.
Il tendone si gonfiò di urla, mentre uno stuolo di inservienti accorse sulla pista nel maldestro tentativo di porre rimedio all’accaduto. Ma fu subito chiaro che non c’era niente da fare, se non attendere l’ambulanza. E naturalmente la polizia.
Il pubblico si sparse per ogni dove, smembrandosi in fazioni di curiosi o di inorriditi. L’ultimo numero del Grande Marvin non sarebbe stato dimenticato tanto facilmente.
* * *
“Sapevo che era intenzionato a ritirarsi,” osservò con infinita amarezza Galvani, il direttore del circo. “Ma mai avrei pensato che lo avrebbe fatto stasera, e in un modo tanto… tanto…” Non trovando l’aggettivo che cercava, si limitò ad allargare le braccia a comprendere i due corpi stesi sopra sabbia e segatura. Il fotografo legale stava scegliendo le inquadrature più significative, accendendo di quando in quando la scena con scattanti ceffoni di luce bianca.
Il commissario Ligotti tornò a sollevarsi, dopo essere rimasto lungamente inginocchiato per esaminare da vicino prima il cadavere di Marco Vinci, poi quello della sua giovane consorte. Il colpo al torace dell’uomo era stato preciso in maniera impressionante. La lama si era fatta largo fra le costole, e aveva trovato il cuore. Anche la ferita alla gola della ragazza era profonda, e denotava un lancio altrettanto preciso, quasi ne fosse stato veramente artefice il marito.
Un giovane poliziotto dalle scarpe inzaccherate da non meglio identificati escrementi di animali si avvicinò al commissario porgendogli due coltelli racchiusi in buste trasparenti sigillate. Ligotti le afferrò con aria truce, fissandone il contenuto.
Il coltello più grande, quello col manico rosso, era stato estratto dal petto del Grande Marvin. L’altro, quello che aveva ucciso Rebecca, era corto la metà, e la sua lama era più sottile.
“Era lui a fabbricare queste meraviglie?” domandò Ligotti.
Galvani annuì, con atteggiamento pensoso. “Sì, amava elaborare i suoi coltelli, le sue sciabole, inventandosi roba sempre nuova. Saldava, tagliava, piegava… Certo che… un congegno simile… è una vera diavoleria…”
“Credo sia la parola giusta,” convenne Ligotti.
Gli aspetti relativi al perché del suicidio-omicidio passarono decisamente in secondo piano, rispetto al come. La storia di Klaus venne subito a galla, per cui il movente passionale risultò fin troppo facile, e banale, da delineare. Quel micidiale coltellino nascosto dentro il manico del coltello più grande, invece, ebbe il potere di calamitare morbosamente la fantasia di tutti quanti. Era stata sufficiente una pressione sulla lama dell’arma “madre” (come venne battezzato il coltello che aveva spaccato in due il cuore del Grande Marvin) per far scattare una molla. Questa aveva allora proiettato indietro con violenza l’arma “figlia”, che per caso o per calcolo aveva trovato il suo obiettivo. Un doppio colpo, micidiale, chirurgico, in meno di un secondo.
“Basta così,” ordinò Ligotti al fotografo. “Credo che ne abbiamo abbastanza da riempirci un bell’album.” Osservò poi i tecnici in guanti di lattice che tendevano cordicelle, calcolavano distanze e posizioni, discutendo sulle probabilità che un simile progetto potesse andare a buon fine. Tutti mantenevano un’aria compunta, ma Ligotti riconobbe su quelle facce l’ombra di una riverente ammirazione. Sentimento che, d’altronde, sospettava segretamente di condividere.
Lanciò un’occhiata al volto ancora sorridente del Grande Marvin, prima che un lenzuolo venisse tirato a nasconderlo. Se il gesto non fosse risultato sconveniente, quasi quasi gli avrebbe stretto la mano.