La diffusione in Italia dei generi giallo, noir e poliziesco deve gran parte del merito a Il Giallo Mondadori la collana da edicola di narrativa nata nel 1929 e pubblicata dalla Arnoldo Mondadori Editore. Fu proprio per il colore di copertina improntato sulla grafica gialla che in breve tempo si arrivò a coniare il neologismo giallo ormai entrato nel parlare comune per indicare un’opera letteraria, giornalistica o cinematografica che narra di fatti delittuosi e, generalmente, delle relative indagini a loro connesse.
Direttore storico della serie, di cui rimane alla guida ininterrottamente dagli anni trenta al 1979 (con l’interruzione 1941-1946 dovuta alla chiusura della collana da parte della censura fascista) è stato Alberto Tedeschi che, nell’immediato dopoguerra, decise di affidare la cura delle copertine ad un altro nome ormai leggenda, l’illustratore Carlo Jacono.
Nel corso dei suoi quasi novant’anni di vita la collana ha ospitato i grandi nomi della narrativa di genere (basti ricordare fra i tanti, quelli storici di Agatha Christie, Erle Stanley Gardner, Edgar Wallace, John Dickson Carr, Cornell Woolrich, Rex Stout, James Hadley Chase) diventando, con gli oltre tremila titoli pubblicati, un appuntamento (prima settimanale oggi mensile) quasi immancabile tra i clienti delle edicole e i mille arcinoti investigatori e solutori di trame complesse.
Inizialmente tenuti in disparte, nel corso degli ultimi vent’anni anche gli autori italiani hanno trovato il loro giusto spazio su Il Giallo. Il nome proposto per questa domenica letteraria su Allibri è quello di Manuela Costantini, scrittrice abruzzese, nata a Giulianova e creatrice del personaggio dell’avvocato Filippo Dolci (e, non a caso, del suo rapporto di odio/amore con l’immancabile Borsalino) che, con il GM ha pubblicato il romanzo Le immagini rubate (il numero 3115 del 2014) vincendo il prestigioso Premio Tedeschi. Oggi, in lettura, con protagonista proprio l’avvocato Dolci, il racconto L’arte del volo.
1
«Ma tanto per sapere – dico al commissario Pietro Ciccone. – Con il ladro di scarpe, anzi, scarpa, a che punto siete?»
Seduti di fronte al mare, mangiamo gli spaghetti di Marino che sono una prelibatezza.
Ciccone mi guarda di traverso. «Nessun punto. Ma è di sicuro uno che non ci sta con la testa. Perché ruba solo scarpe sinistre? Che se ne fa?»
«Una collezione?» Azzardo.
Il telefono di Pietro suona, lui controlla il numero e risponde.
«Saverio – dice. – Dove? – domanda. – Arrivo subito, ci vediamo là» Conclude e riattacca.
«Che è successo?»
«Hanno trovato un cadavere sotto il pontile di legno. Devo andare.
«Vengo con te» Ribatto.
«Non puoi.»
«Non dirò una parola» Lo rassicuro, mentre pago il conto.
Arriviamo in fretta, il luogo indicato è vicino al ristorante. Un corpo è disteso a terra, proprio sotto il pontile, due agenti lo “sorvegliano”. Un gruppo di ragazzi si tiene a distanza.
Ciccone si avvicina svelto, io mi fermo, la morte mi blocca, mi annienta. Ho paura, terrore di “lei”, e non voglio incontrarla, e nemmeno sentirne parlare.
Osservo l’espressione contrariata di Pietro che parla con l’ispettore Saverio Tudini.
Intanto la scena si anima.
I flash, le sirene, le voci, le persone che si muovono frenetiche.
Nonna diceva che la morte non deve spaventare, perché se c’è lei, vuol dire che tu non ci sei più. E allora mi faccio coraggio, anche se non sono coraggioso, e raggiungo il commissario che adesso parla con il magistrato.
«Chi era?» Domanda il PM.
«Niente cellulare, niente documenti. Solo il completo blu che indossa. E la ricevuta di un parcheggio, lasciata vicino al corpo. Cominceremo da qui.»
«Chi lo ha trovato?»
«Loro»» Risponde Ciccone, indicando il gruppo di giovani.
Io guardo i ragazzi, poi guardo il corpo disteso a terra. Ha un taglio profondo che gli attraversa il collo. È vestito con un completo blu, logoro. E una strana espressione sul viso. Sembra incredulo. E arrabbiato.
«Io so chi è – dico, e mi viene da piangere. – Si chiamava Alberto Manni. Era il fratello della mia segretaria.»
«Il fratello di Tiziana?» Mi domanda Pietro.
«No, di Dora, la segretaria che avevo prima.
Guardo di nuovo Alberto e il suo abito e penso a una partenza. C’è la morte e lui non c’è più. Se n’è andato e non ha sentito il bisogno di portare con sé il vestito logoro che indossava.
Ciccone riferisce a Tudini le generalità dell’uomo.
«Avvertite la famiglia e quando avranno finito, fatelo portare via. Raccogliete le deposizioni dei ragazzi. Ci vediamo in commissariato» Dice.
«Avevi promesso che non avresti detto una parola» Osserva, mentre ci allontaniamo.
«Se io ci sono la morte non c’è. E se parlo, è più sicuro che non ci sia.»
Pietro mi guarda.
«Sei tu il ladro di scarpe?»
2
«Ha bisogno di aiuto?» Domando alla giovane che si aggira spaesata, davanti al mio studio.
«Cerco l’avvocato Filippo Dolci, devo sporgere una denuncia.»
«Sono io, ma per la denuncia deve andare in commissariato.»
«Le pare che non lo so?»
«No, non mi pare. Che deve denunciare?»
«Omicidio tentato.» Precisa.
«Mi segua» Le dico. Sono incuriosito da lei e dal soprabito verde che indossa, lungo fino ai piedi.
Lei si accomoda, solleva i lembi del soprabito per evitare che tocchino il pavimento e tira fuori dalla borsa uno scontrino.
«Ecco – e me lo porge. – Hanno sbagliato i conti e non vogliono restituirmi i soldi. Vogliono farmi un buono acquisto.»
«Cosa ha comprato?»
«Due gloss, un mascara, una matita per gli occhi, una palette di ombretti, un blush, un primer, tre rossetti, un bronzer e una cipria compatta» Elenca. «Per un totale di duecentocinquantasette euro.»
«Non capisco come i suoi acquisti possano essere correlati a un omicidio. Mi diceva che hanno sbagliato i conti. Di tutto quel che ha comprato?»
«Solo dei rossetti.»
«Mi scusi, ma davvero non trovo un motivo che giustifichi una denuncia… per “omicidio tentato”.»
«Invece sì – contesta lei. – Potrei morire di crepacuore.»
«Per i soldi?»
La giovane sospira.
«Per principio, avvocato. Per principio.»
«Potrei scrivere una lettera ai signori del negozio. Mi deve far avere i dati.»
«Va bene – dice lei. – E poi farò la denuncia» Aggiunge e se ne va, nel suo lungo soprabito verde.
Mi incammino verso casa, e penso alle questioni di principio che spesso non portano da nessuna parte. Mi ritrovo davanti all’abitazione di Dora, la sorella di Alberto, la mia ex segretaria, che decise di licenziarsi per crescere i suoi figli. Suono il campanello.
Dora mi apre e scoppia a piangere.
L’abbraccio.
«Mi dispiace» Ed è l’unica cosa che riesco a dire.
«Veniva sempre qui a mangiare, il sabato. Ieri non è venuto e non ha risposto al telefono. Se solo avessi immaginato. Oddio, Filippo, che tragedia, è colpa mia… dovevo andare a cercarlo.
«Come può essere colpa tua?»
«Proprio adesso che s’era pure fidanzato… era innamorato, ho pensato che stesse con lei, con Olga… e invece lo stavano ammazzando, povero fratello mio – dice Dora, tra i singhiozzi. – E se fosse stata lei?» Dice poi, come a dare voce a un pensiero inconfessabile.
«Erano innamorati?»
«Lui sì, ne parlava spesso, voleva sposarla. Io ho insistito tanto per conoscerla ma lui diceva che occorreva un po’ di tempo, non voleva forzarla. Era buono, Alberto, spero che quella donna lo amasse davvero.»
«Hai dubbi?
«Lui era benestante, e scapolo. Chiunque ne avrebbe approfittato.
«Chiunque?»
«Il lavoro andava bene?»
«Alberto era un gran lavoratore, rimaneva in azienda fino a tardi, fino a che i conti non quadravano. “Deve quadrare tutto”, ripeteva e il suo capo lo adorava. Con un contabile come Alberto poteva dormire sonni tranquilli.»
Sento girare la chiave nella serratura, due ragazzini vivacissimi corrono da lei. Insieme a loro c’è un uomo che sembra un ragazzino pure lui. Dora me li presenta e sorride, con gli occhi ancora gonfi di lacrime. Io me ne vado e la lascio con la sua famiglia.
3
È tardi, mia moglie Lavinia è fuori per uno dei suoi corsi di formazione e Ciccone è ancora al lavoro. Sta cercando un ladro di scarpe. E un assassino. Chi poteva odiare così tanto Alberto da ucciderlo? Era buono, ha detto Dora.
Entro in commissariato. So che Pietro non mi dirà granché e non sarà di grande compagnia, ma io ho fame e non ho voglia di mangiare da solo.
«Hai parlato con Olga?» gli chiedo, entrando nella sua stanza.
Lui è sommerso dalle carte. Legge, spulcia, confronta. Alza gli occhi su di me.
«Olga?» Replica con tono canzonatorio.
«Eh, la fidanzata di Alberto.»
«La fidanzata? – E il tono è ancora più accentuato. Sposta i fogli che ha davanti e poggia le mani sulla scrivania. – Olga Sokolov è una intrattenitrice, e uso appositamente un termine morbido, lavora al “Mirage”. E il tuo amico Alberto andava da lei tutti i venerdì sera. La ricevuta trovata accanto al corpo di Manni è di una macchina presa a noleggio. Qualcuno è arrivato fin qui dall’Ucraina. E Olga è ucraina. E Manni aveva parecchi soldi.»
“E se fosse stata lei?”, ha detto Dora. – Avete l’assassino.
«Stiamo andando a verificare – afferma Ciccone e chiama l’ispettore Tudini. – E no, non puoi venire.»
«Stavolta la morte non c’è, non parlerò.»
La mia fame dovrà aspettare. In macchina Pietro mi racconta che il datore di lavoro di Alberto, Tiziano Valente, era disperato quasi quanto Dora. Ha detto che Manni era un gran lavoratore, abitudinario e meticoloso, che non amava parlare della sua vita privata e che si emozionava solo quando si parlava di uccelli.
«Uccelli?» Domando.
«Pare avesse una passione per l’ornitologia. Per lui, gli uccelli, erano animali superiori in grado di capire il vento e di adeguarsi. Se volevi scambiare qualche parola, ha detto Valente, era sufficiente accennare a un volatile e lui attaccava a raccontare storie incredibili. Avrebbe voluto essere come loro – continua Ciccone e fa cenno a Tudini di parcheggiare.
«Per capire il vento?» Chiedo a Pietro.
«Forse. O forse per adeguarsi.»
Olga è bellissima. Si accomoda davanti a noi, accavalla le gambe nude.
«Povero Alberto, era un uomo buono – esordisce, in un italiano quasi perfetto. – Voleva sposarmi, ma tornerò a Kiev, con mio fratello.»
«Anche lui è in Italia?» Chiede Ciccone.
Io resto in silenzio, e penso alla ricevuta del parcheggio.
«No, è venuto per me, per riportarmi a casa.»
«Manni le ha fatto regali? Le ha dato soldi?»
«Sì, Alberto era buono, ve l’ho detto.»
«Quanti soldi?»
«Abbastanza per provare a convincermi. Ma l’amore non si compra e lui non meritava una come me.»
«Che altro può dirci? Manni aveva nemici? Conti in sospeso?»
«Non credo. Avete provato a leggere il suo taccuino? Forse troverete qualcosa, lui annotava sempre tutto.»
«Quale taccuino? »
«Un taccuino blu, pieno di numeri e lettere e date. Io l’ho solo sbirciato, lui ne era molto geloso.»
Ciccone lancia un’occhiata all’ispettore Tudini che fa “no” col capo, non hanno trovato nessun taccuino. Poi mette le mani sulle ginocchia e fa per alzarsi.
«Un’ultima cosa, signorina – dice. – Dovremo parlare con suo fratello, dove lo possiamo trovare?»
«Andrej è al bar qui davanti, mi aspetta – risponde lei. – Ora vado, è la mia ultima sera di lavoro, devo ballare» Spiega, con rimpianto nella voce.
Andrej Sokolov somiglia molto alla sorella. Guarda distratto la partita che trasmettono in televisione. Sembra più interessato all’insegna luminosa del “Mirage” che occhieggia invitante dalla vetrina del bar. Tudini ha telefonato in commissariato, la targa della macchina parcheggiata lì davanti, corrisponde a quella segnata sulla ricevuta trovata vicino al cadavere. Entriamo, lui non sembra accorgersi di noi.
«Il signor Sokolov?» Chiede Tudini, avvicinandosi.
L’uomo sobbalza.
«Chi siete?» Domanda. Anche il suo italiano è quasi perfetto.
«Polizia. Possiamo farle qualche domanda?» Interviene Ciccone.
Mi ha appena considerato uno di loro, e ne sono orgoglioso.
«Perché?» chiede Andrej.
«Perché è morto Alberto Manni, l’amante di Olga» Spiega il commissario.
«Non ho ucciso nessuno.»
«E allora può rispondere, no?» Incalza il commissario.
L’uomo annuisce.
«Bene – fa Ciccone. – Dov’era venerdì sera?»
«Qui. Aspettavo mia sorella, come tutte le sere.»
«Fino a che ora?»
«Più o meno le tre di notte. Poi siamo andati a casa sua.»
«Olga è uscita dal locale insieme a un uomo?»
«No, era sola.»
«L’auto parcheggiata qui fuori, quella bianca, è sua?»
«No, l’ho presa a Kiev, è affittata.»
«Mi può spiegare come mai c’era la ricevuta di un parcheggio con la targa dell’auto, vicino alla vittima, a dieci chilometri da qui?»
«Non lo so.»
«Deve venire con noi» Dice Ciccone.
«E Olga?»
«Manderemo qualcuno a prenderla.»
4
La ragazza dal lungo soprabito verde è nel mio ufficio, ha un’espressione contrariata.
«Avvocato, ha scritto la lettera?»
«Avevo bisogno dei dati. Come va il suo cuore?» Le chiedo.
«Non si prenda gioco di me, i princìpi sono questioni importanti. Anche se non portano da nessuna parte» Dice e mi porge un plico di fogli.
«Ecco, E allora perché si incaponisce?»
«Perché non sopporto il lascia che sia. Perché non voglio adeguarmi. Perché sono pochi euro, ma sono quelli sbagliati e posso perdonare un errore, ne faccio tanti anch’io, ma non posso accettare che quell’errore non venga corretto, ma venga solo rattoppato, o peggio, ignorato o nascosto o mascherato.»
«Non fa una piega. Le piace volare?»
La ragazza sorride.
«Mi piace la libertà del volo. E mi piacciono le cose che non fanno una piega. Mi chiami appena risponderanno» Dice lisciandosi il soprabito, e se ne va.
“Deve quadrare tutto”, diceva Alberto.
Chiamo Pietro, gli spiego la mia teoria, lui è d’accordo con me, ha già chiesto le autorizzazioni necessarie.
«Forse occorrerà un avvocato» Mi dice, a sorpresa.
«Salve signor Valente, possiamo parlare un momento?» Dice Ciccone, quando entriamo nell’ufficio del titolare dell’azienda in cui lavorava Alberto Manni.
«Prego, accomodatevi.»
Pietro bara, per spaventarlo.
«Non qui, dovrebbe seguirci in commissariato, se non le dispiace.»
A Valente dispiace. I suoi occhi lo dicono. E lo dice anche la velocità con cui tenta di aprire il cassetto della scrivania. Ciccone però è più veloce di lui. Mi colpisce con il braccio e mi getta a terra e io non respiro quasi più quando lo vedo con la pistola puntata sulla faccia di Valente.
5
Il coltello che ha tagliato la gola di Alberto non è stato trovato, ma il taccuino blu era nascosto nel bagagliaio dell’auto di Tiziano Valente. L’uomo ha confessato il delitto. Aveva seguito Manni al night e aveva raccolto la ricevuta gettata a terra da Andrej, per creare una falsa pista. Poi aveva convinto il contabile a salire in auto, avevano parlato di quello che Alberto aveva scoperto e annotato sul taccuino blu. Le false fatture, i conti truccati, i soldi sbagliati. Che non erano pochi. Manni aveva prospettato la soluzione, non poteva accettare che quegli errori venissero “ignorati o nascosti o mascherati”, non poteva adeguarsi. E allora Valente lo aveva ucciso.
C’è il funerale di Alberto, ma non ci vado, non vado mai ai funerali. Seduto in riva al mare, mangio un trancio di pizza, quella di Osvaldo, la più buona del mondo.
Penso a tutte quelle scarpe sinistre rubate e rimaste senza la “compagna”.
Penso alle partenze senza ritorno.
Penso ai fratelli Sokolov e al fatto che il loro cognome voglia dire “falco”.
Penso all’arte del volo e a quella dell’adeguarsi. Sono incompatibili e non possono essere imparate insieme.
Penso ai tanti errori che ho commesso.
Ma io voglio continuare a sbagliare, e allora vado a comprarmi un altro trancio di pizza.