Il primo appuntamento del 2018 su ALlibri è con Giuseppe Foderaro, uno scrittore che ha sempre coniugato l’immagine della metropoli con la narrativa di genere. Ma nel suo ultimo romanzo, I sogni non si ammalano (Edizioni Ultra) sembra voler lasciare in disparte il noir (e uno dei personaggi preferiti, il detective assicurativo Sauro Badalamenti, presente in molti dei suoi racconti e romanzi) per raccontarci di Sante Tonelli, una giovane promessa del pentathlon moderno che, proprio quando riesce a ottenere le qualificazioni alle Olimpiadi di Rio, scopre di avere una malattia degenerativa di tipo progressivo. Il suo medico gli assicura che esiste una cura in grado di bloccare il decorso, ma i trattamenti lo farebbero risultare positivo agli esami antidoping. C’è allora una sola possibilità per coronare il suo sogno, ed è quella di nascondere a tutti il suo stato di salute, confidando nell’assunzione di pochi e inefficaci antidolorifici. La vita però non può fare a meno di scorrere veloce: la storia d’amore con Sandra che diventa sempre più seria, la sorellina Leila, piccolo genio ribelle che gli dà filo da torcere, i giornalisti d’assalto che non vedono l’ora di creare scoop inesistenti. Ma i tempi si accorciano, i traguardi sono linee che s’intravedono solo in lontananza e i sintomi di Sante iniziano a interferire con gli allenamenti. Le sue prestazioni calano, e quelli che vivono attorno a lui, dai compagni di squadra ai familiari, cominciano a sospettare che sia sotto l’effetto di qualche sostanza dopante. Inizia allora la vera sfida, quella che non finisce mai e si combatte da soli, contro i propri limiti, per i propri sogni.
Per la lettura domenicale ecco l’estratto da I sogni non si ammalano
Con un filo d’ansia Sante si avvicinò al recinto dei cavalli. Non capiva come mai gli fosse sempre riuscito di stabilire un buon rapporto con qualsiasi altro animale, ma non con quei dannati cavalli. Con Jago si intendevano alla perfezione, perfino Roger che era un coniglio si mostrava ricettivo e conciliante, invece quei quadrupedi, ogni volta che si avvicinava, diventavano nervosi. Lo fiutavano da lontano. Forse sentivano la sua paura e si regolavano di conseguenza. Dannate creature, si impennavano, rifiutavano l’ostacolo. Da quando era stato alla festa della transumanza, però, gli si era aperto un mondo. Aveva cominciato a capire il loro punto di vista. Forse non gli piaceva essere comandati, volevano decidere di saltare come e quando gli pareva. Per quanto il suo allenatore continuasse a raccomandargli di badare all’assetto, ogni tanto, senza farsi vedere, provava a lavorare senza staffe. Prima aveva provato a montarle più lunghe, poi pian pia-no si era avventurato a sfilare anche i piedi.
Montò a cavallo e dopo un paio di giri di prova cominciò ad alternare trotto seduto sull’inforcatura o battendo la sella. Allentando le staffe si per-deva aderenza e occorreva stringere le gambe più forte per rimanere stabili in sella, ma il cavallo sembrava gradire. Provò a ottimizzare il movimento, pensando a tutti i film western che aveva visto, cavalcando alla maniera pellerossa. Dopo parecchi tentativi cominciò a capire che non conveniva stringere le ginocchia per restare in equilibrio, era meglio lavorare coi polpacci cercando di mantenersi in groppa. Questo sembrava non irritare il cavallo. Ma non era una prova decisiva, quella, forse tra lui e il quadrupede si era ormai creata una certa intesa. Era una teoria che andava verificata.
Avrebbe dovuto chiedere a Fernando se gli poteva assegnare altri cavalli, magari a rotazione, per poter mettere a punto il suo sistema molto personale. Però come poteva spiegarglielo? Se gli avesse detto che intendeva montare re a cavallo senza staffe, soprattutto al momento del salto, si sarebbe preoccupato. E poi non era sicurissimo che questo potesse essere tollerato in gara, magari qualche giudice troppo scrupoloso avrebbe potuto trovarci da ridire. Sarebbero stati capaci anche di eliminarlo, per una presunta scorrettezza.
La tecnica classica prevedeva di imporsi sull’animale, così era sempre stato fatto. E lui aveva sempre assorbito passivamente ogni insegnamento, prendendo le istruzioni come oro colato. Ora invece cominciava a pensarla in un altro modo. Chi diceva che loro avessero ragione e lui torto? Proprio nessuno. Forse quello era uno sport che andava svecchiato, era ora di cominciare a sperimentare nuove soluzioni. Del resto quelli del comitato olimpico rivoluzionavano le regole ogni volta. Prima il combined, poi la distribuzione delle gare appena due soli giorni. Ogni volta si cambiava tutto. Sempre con la scusa che doveva essere più scenografico, per catturare l’attenzione dei media. Ma le Olimpiadi non erano mica un reality o uno spettacolo circense. Erano competizioni sportive. Dove gli atleti, e non il pubblico, avrebbero dovuto avere maggior considerazione. Chissà, una volta terminato il periodo agonistico, forse per lui ci sarebbe stato un futuro come consulente tecnico. Non gli sarebbe dispiaciuta affatto come prospettiva.
Scoprì che mentre si era lasciato andare a pensare, il cavallo aveva assunto un ritmo più rilassato, smetteva perfino di fiutare in giro con aria allarmata e le orecchie dritte. Forse il segreto era quello. Smettere di pensare al cavallo, ai risultati, alle tecniche di allenamento e lasciarsi andare. Sottomettere il cavallo non gli sembrava la soluzione giusta. Per niente. Occorre imporsi, gli avevano sempre ripetuto. Ma chi l’aveva detto? Sante preferiva le vie oblique, anche con le persone, credeva fosse meglio arrivarci con calma, senza cercare lo scontro aperto. Non occorreva per forza il contrasto. Già c’erano le complicazioni dovute al terreno, allo stato d’animo, alla posizione del sole. Poi bisognava anche vedere se il cavallo era di buon umore. Entrare in sintonia in soli venti minuti di prova con un destriero sconosciuto, estratto a sorte, non era mica facile.
Chissà poi cosa ne pensava l’animale, di essere montato da persone sempre diverse e che, oltre tutto, parlavano in una lingua straniera. Provò a chiedere al suo una variazione di ritmo, ma con dolcezza. Il cavallo ri-spose subito con disinvoltura, come se pensasse anche lui che fosse la cosa migliore da fare. Lo condusse verso la barriera, e lasciò andare le briglie tenendo le mani posate sul pomello della sella, i piedi toccavano appena le staffe, solo con le punte, nel salto avrebbe perso l’appoggio, ma se serrava abbastanza i polpacci sarebbe rimasto in posizione. Faceva un male cane, ma per uno abituato a correre non era sbagliato irrobustire i polpacci. Forse gli avrebbe regalato anche qualche decimo di secondo in più nel nuoto se avesse sviluppato la muscolatura del tricipite.
Il salto della barriera andò bene. Evidentemente il trucco stava nel far decidere al cavallo. Erano volati via insieme, lui curvo sull’incollatura, ma morbido, il cavallo con la sensazione di non avere un peso sulla groppa. Però doveva ricordarsi che anche gli ostacoli più piccoli erano importanti. Non esistevano solo le barriere, si poteva sbagliare eccome, anche sugli ostacoli semplici. C’era da tenere conto anche di questo in gara. Ad alcuni era capitato di sbagliare subito appena entrati in campo, e iniziare con una penalità non era la soluzione migliore.
Anche per far partire il cavallo al suono della campana in realtà bastava appena un movimento delle gambe, non servivano strattoni selvaggi alle briglie. Cronometro alla mano aveva scoperto che guardarsi indietro ogni volta per vedere se la barriera aveva tenuto o era crollata, faceva perdere l’assetto e, cosa ben più grave, tendeva a innervosire il cavallo. Tanto non serviva a niente saperlo prima o dopo, una volta che l’ostacolo era alle sue spalle non ci poteva fare più niente. Nel bene o nel male ormai era fatta. Meglio concentrarsi sull’ostacolo successivo, azzerare gli errori, guadagnare secondi preziosi.
Uomo e cavallo nel salto dovevano diventare un tutt’uno. Si fermò a guardare i suoi amici che si allenavano. Non c’era niente da fare, gli errori erano sempre quelli: alcuni prima del salto si alzavano sulla sella avanzando col busto ancora prima che gli zoccoli dell’animale si staccassero da terra. Questo causava uno sbilanciamento in avanti, come uno zaino assicurato male che ti viene addosso mentre corri. Certo, se ci si metteva nei panni del cavallo si capivano un sacco di cose. Se il cavaliere era una zavorra, occorreva tenerne conto. In quel caso, col peso spostato in avanti, il salto era tre volte più difficile. Per forza non funzionava. L’orrore opposto era anche peggio.
Guardando da fuori era più semplice capire gli sbagli. Capitava che il cavallo fosse pronto per saltare ma il cavaliere no, allora lo stacco da terra veniva malissimo, perché una volta che gli zoccoli erano in aria, era come se il cavallo si portasse dietro un carico mal distribuito che sbandava da tutte le parti. Non c’era altro da fare che diventare una cosa sola col cavallo e lasciare che fosse questo a decidere il momento del salto.
Così come sarebbe stato meglio lasciar decidere gli allenamenti agli atleti. Non c’era mai un allenatore che fosse d’accordo con un altro. E i carichi di lavoro spesso finivano per sovrapporsi, tanto che i giorni della settimana non bastavano mai. Non si trattava solo di spingere l’autostima e farsi convincere delle proprie possibilità in gara. Tenere alto il morale era importante, ma se questo portava a una corsa senza fine contro il tempo diventava nocivo. Un folle circolo vizioso. Più uno si stancava e più gli chiedevano di essere competitivo. La teoria della tensione dinamica, più chiedi e più ottieni.
Appunto la chiamavano teoria, però, perché nessuno diceva che funzionasse davvero. Gli allenatori poi non capivano cosa si provava a sottoporsi a una tabella di marcia così intensiva. Sarebbe stato carino far tentare a loro, chissà quanto sarebbero durati. Solo un atleta sa come distribuire i carichi e cosa mangiare. Non è l’allenatore che fa un buon atleta. I campionissimi non si fabbricano mica con lo stampino, le tabelle e i programmi di marcia forzati non servono a niente se non hai qualcuno pronto a mettere in gioco ogni cosa per te, a sacrificare credibilità e orgoglio per difendere una giovane promessa. Ci voleva qualcuno che ci credesse davvero, uno come Russo. Altri erano forse più preparati, avevano anche forgiato eccellenze, ma mancavano di umanità. Lui invece era uno che capiva che lo scopo ultimo non era solo il record, la vittoria o salire sul podio. Quanto piuttosto sorprendere se stessi, riuscire a fare qualcosa di più di quanto si credesse possibile. Che poi era quello che lo faceva star bene. Anche quando pensava di aver finito le energie e invece riusciva ancora a fare un altro giro di pista. La lotta era con se stessi. Per questo a Sante piaceva procedere per tappe, prefissandosi piccoli traguardi, tutti raggiungibili.
Adesso che la qualificazione per le Olimpiadi si era incrociata con un problema fisico, il traguardo che si era posto era quello di arrivare al Deodoro di Rio senza che nessuno si accorgesse del suo male. Era una cosa personale, tutta sua, che nessun altro doveva sapere.