Capitano fatti strani di tanto in tanto. Ti ritrovi con un notevolissimo libro tra le mani, scritto da una brava e bella autrice italiana, e decidi di scriverne perché la storia ti fa rimbalzare idee su altre idee. Mentre ci pensi perché non sai come “attaccare” il pezzo, ti vedi un film che ti sei perso colpevolmente un paio di mesi fa, Dunkirk di Christopher Nolan, straordinaria esperienza multisensoriale sull’evacuazione da Dunquerque di 350.000 soldati inglesi assediati da ogni lato, per terra e per cielo, dai nemici nazisti.
Non sto a sentenziare sul film che vanta migliaia di fan plaudenti ma anche detrattori doc (uno per tutti, Goffredo Fofi). Non lo faccio perché qui non è sede e devo parlare d’altro. Di cosa? Di quell’idea di cinema, tipica di Nolan, che ti immerge in una realtà – che nel caso in questione è Storia – nella quale sei costretto a confrontarti con l’Altra Parte. Non crediate neppure per un secondo se qualcuno, privo del dono di Pindaro, vi dice che Dunkirk è un film di guerra. Lo è nella misura in cui dobbiamo incasellarlo da qualche parte nel magazzino della merce, ma tanta esperienza totale e travolgente su ogni piano del fruibile è la prova inconfutabile che i veri, grandi artisti visionari sono in grado di prenderti per i cenci e cacciarti dentro “l’Altra Parte” per farti comprendere meglio l’apparente concretezza in cui vivi immerso e alla quale non esiste alternativa. I tempi, i luoghi, le scansioni, nel mondo di Nolan non sono esattamente quello che dovrebbero essere. E persino i suoni provengono da un’Altra Parte. La Twilight Zone dell’incubo e dell’inconscio.
Ma sto parlando ancora del film? Anche, va da sé. Ma soprattutto il film di Nolan diventa chiave strumentale per entrare in un luogo – che potrebbe essere della mente ma sul piano formale non lo è – dal nome Twizel, Nuova Zelanda.
Twizel è un libro di Francesca Caldiani (La Corte Editore, che inanella chicche su chicche) recante come sottotitolo L’altra parte e che andrebbe letto non disgiunto dal viaggio “interstellare” di Dunkirk.
Mettiamo allora che un giorno di chissà quanto tempo fa Francesca, in viaggio nella terra dei Maori, sia transitata per Twizel – esistente sul serio laggiù, cittadina di 1200 abitanti – vicina al lago di Pukaki, considerato il più bello della nazione. Francesca vi s’immerge, ci fa canoa, “respira” il luogo e, siccome è una scrittrice, sceglie Twizel come suo “luogo oscuro” – o forse Twizel sceglie lei, ma, insomma, il succo non cambia.
Ignoro se ho azzeccato la genesi creativa del romanzo. Il fatto è che nelle prime, formidabili 70 pagine si sente come l’autrice conosca a menadito il luogo dell’ambientazione e. proprio per questo, clamoroso paradosso, ecco che Twizel si propone da subito come spazio della psiche, avvolto da una serie di misteri che fanno un po’ Twin Peaks e un po’ Stephen King: una piccola comunità dove più o meno tutti si conoscono e dove il destino economico è legato alle centrali idroelettriche. Un ristretto gruppo di ragazzi, femmine e maschi, sui 16 anni, con le inevitabili e suggerite dinamiche (innamoramenti, bullismi, piccoli traumi di crescita), e soprattutto un passato misterioso fatto di incidenti mortali alle centrali e annegamenti nelle acque del Pukaki. Partenza da thriller che funziona alla grande perché Francesca sottende il mistero con perizia secondo la sempre valida legge del gotico che recita: «il Diavolo si nasconde nei dettagli».
Sarà quel che ci aspettiamo il seguito? Dimenticatevelo. Quando i tre protagonisti principali – che si chiamano Carly, Oliver e Bentley – decidono di risolvere i misteri alla loro maniera andando alla caccia sulle sponde del lago di qualche trascurato particolare da disseppellire, ecco che il romanzo sfoggia un guizzo inaspettato all’insegna del più genuino cross-over. Adesso, ovviamente, mi astengo dallo svelare su dove va a parare la diabolica Francesca, ma vi basti sapere che, se per questo romanzo le etichette si sono sprecate tra young adults e fantascienza, la vera chiave per addentrarvisi è proprio quella della contaminazione, così ben gestita da proporsi lei stessa come principale categoria di riferimento. Alla stregua di certi film visti di recente – uno fra tutti, Enemy di Villeneuve e, certo, Dunkirk -, opere le cui pertinenze di genere un po’ sempre sfuggono (e meno male dal mio punto di vista), Twizel è un lavoro “psichico” che richiede al lettore da pagina 79 in poi uno sforzo mentale per “entrare” al meglio nella strabiliante dinamica per la quale l’Altra Parte diventa lo schermo percepito di un passato che ritorna e che non è quello che i protagonisti si ricordano.
Una convincente prova d’autrice che non necessita di appello e che s’inserisce in modo coerente nel vasto, attualissimo dibattito scientifico e filosofico sulla natura della realtà percepita. Se il recente incremento delle neuroscienze ci racconta infatti che noi non “vediamo” la realtà quale in effetti è, ecco che un prodotto di apparente intrattenimento ci ricorda con intelligenza che il mondo esterno è inconoscibile direttamente e che la sua diretta conoscenza è sempre mediata dal corretto funzionamento del nostro sistema biopsichico.
Se questo diventa manipolabile o modificabile, la prima patologia – ammesso che sia tale – può essere una percezione non più oggettiva, con allucinazioni e visioni di “altre parti” esistenti sotto il velo dell’apparente reale.
Di questo, e molto altro, ci racconta Twizel. E so per certo che nel 2018 ci sarà un nuovo, appassionante appuntamento in quell’altra dimensione. Non vediamo l’ora.